Se c’è una cosa che, sopra ogni altra, il ritorno a casa di Silvia Romano ha dimostrato (ed in maniera distorta!), è la triste e sacrosanta verità della formula gattopardiana per cui “bisogna che tutto cambi perché tutto resti uguale”.
La quarantena ci aveva dato una grande opportunità: quella di guardare finalmente in faccia i nostri limiti e il nostro egoismo, la nostra pochezza e la nostra arroganza. Ci aveva relegato in un limbo da cui saremmo dovuti riemergere rinnovati, franchi dai nostri pregiudizi, dal falso moralismo e dal qualunquismo, per riscoprirci migliori. Ci aveva offerto l’occasione di mondarci, di metterci in discussione, di riabilitarci, consentendoci di abbandonare l’affabulazione indotta dai miti di turno e di affermare la nostra integrità; ci aveva consegnato la speranza di una rinascita, di un domani migliore.
Ma è bastato che si smettesse di parlare solo di pandemia, di numeri, di contagi e di morti e che i riflettori si spostassero dai pulpiti di virologi ed opinionisti ad altre - finalmente diverse – informazioni, per consentire che la scena politica si ripopolasse di azioni e contraddizioni, di accomodamenti e di polemiche e che l’apparentemente ammansito popolo social (preso fino a quel momento dal solo confronto epidemiologico) cogliesse la prima utile occasione per sfogare una lunga astinenza da vituperi e oltraggi oltre che la propria volgare voracità.
E così, Silvia, da vittima è diventata colpevole; da simbolo di coraggio è diventata insidia; dall’essere in pericolo è diventata essa stessa pericolo.
La sua colpa è quella d’essere tornata cambiata dopo diciotto mesi di prigionia, ma, forse, prima ancora, d’esser tornata.
Se fosse tornata rasata a zero, malnutrita, violata e torturata avrebbe suscitato la pena e la solidarietà di tutti; se non fosse tornata affatto, se fosse rimasta sepolta sotto un ignoto cumulo di pietre o se fosse tornata in una bara, sarebbe stata acclamata come martire ed eroina.
Ma Silvia è tornata perfettamente in salute, integra nel corpo e nello spirito (almeno in apparenza), ma vestita con uno jilbab e con un nome nuovo.
La sua colpa è quella di aver cercato, nei suoi lunghi mesi di prigionia, qualcosa in cui credere e da cui trarre conforto e di aver trovato rifugio in una fede che non era la sua. Ed è per questo che le è stata subito attaccata l’etichetta della traditrice, della potenziale assassina, ed è stata trasformata in una replica reale di quel marine americano della serie televisiva Homeland, che, dopo otto anni di prigionia in Iraq torna in patria, celebrato come eroe di guerra ma in realtà convertito all’Islam e infiltrato di al-Qaida.
Che quella di Silvia sia stata una scelta consapevole, coatta o indotta, non sta a nessuno di noi giudicarla: è un tipo di recensione che non spetta affatto al pubblico, perché solo ad esserne protagonisti si può comprendere il peso e l’effetto di vicende che assorbono una parentesi niente affatto insignificante dell’esistenza.
La sua conversione, piuttosto, dovrebbe indurci ad una diversa e più profonda riflessione: quella sulla solidità e sulla forza pervasiva di alcuni credo. Se dopo un anno e mezzo di prigionia un individuo che provenga da un società libera e liberale può essere travolto e trascinato via dalla professione di una fede integralista, pur avendo sufficienti parametri di confronto per riconoscerne gli estremismi, come si può pensare, all’opposto, che coloro ai quali quell’ideologia e quel credo appartengano per tradizione, cui quei precetti sono cuciti addosso sin dalla nascita, possano cedere a visioni più aperte? Se ci soffermassimo su questa considerazione, forse potremmo meglio comprendere le ragioni della persistenza di alcuni conflitti che proprio su principi di fede si basano! Ma questa è un’altra storia.
Invece, tornando a Silvia, altro non può farsi che constatare, amaramente, l’ignobile accoglienza che le ha riservato buona parte del suo popolo, quando invece avrebbe dovuto avere nei suoi riguardi una manifesta empatia, non foss’altro per essere a sua volta appena uscito da una diversa ma altrettanto penosa prigionia. Gli italiani – che restano sempre e comunque la sua gente, al di là di bandiere e di religioni – avrebbero dovuto mostrare nei suoi confronti un interesse sano, un bisogno di capire come abbia vissuto, quali segni abbia lasciato quell’esperienza sui suoi appena 25 anni di vita e quali cicatrici manterrà sui suoi anni futuri, come è cambiata, chi sia diventata.
Invece hanno preferito lapidarla sotto una gragnuola di insulti, di critiche rabbiose, di cattiverie pesanti come macigni, …chissà poi se per reale convinzione o solo perché si è trovata sfortunatamente ad essere il primo bersaglio mobile contro cui poter sparare appena caduto un non dovuto ma opportuno divieto di caccia!
E allora non sorprendiamoci se l’idea di andarsene, di tornare in quelle terre dove solo un sorriso e una carezza sono già una ricchezza, prenderà di nuovo forza dentro di lei: lì neppure i suoi carcerieri, stranieri ed estranei, le hanno usato violenza; i suoi fratelli italiani invece si.