Il 14 febbraio del 1978 è un martedì, ed è una mattinata gelida; l’intera penisola è attanagliata dalla morsa del freddo e, a nord, la neve ha persino bloccato voli aerei e ritardato i treni.
Nella capitale, le Leghe degli studenti di Roma centro – dopo alcuni giorni d’assemblee - hanno indetto una manifestazione per il rinnovamento della scuola e per il lavoro, e si stanno preparando a partire in corteo da Piazzale della Repubblica (che ancora si chiamava Piazza Esedra) per sfilare fino a Piazza Venezia.
Alle 8.30, come ogni mattina, il giudice Riccardo Palma esce da casa per andare in ufficio.
Ha 62 anni ed alle sue spalle una lunga carriera di magistrato: prima, tra varie preture e tribunali abruzzesi, poi, come Sostituto Procuratore a Roma e, ancora, come Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Milano. Da una decina d’anni è però tornato a Roma per stare vicino alla sua famiglia ed ha lasciato la magistratura di ruolo per un incarico presso il Ministero della Giustizia, dov’è stato posto a capo dell’ufficio deputato all’edilizia penitenziaria, presso la Direzione Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena.
Ed è lì che è dunque diretto.
Ha in mano la sua cartella piena di documenti e una copia de Il Messaggero appena comprata alla solita edicola sotto casa, dopo aver scambiato due chiacchiere con l’edicolante.
La sua Fiat 128 verde è parcheggiata in Via Forlì, di fronte al Teatro delle Muse.
Sta per mettersi alla guida quando sente una voce chiamarlo:
"Dottor Palma!"
Appena il tempo di voltarsi e 14 colpi sparati da una Skorpion (la stessa che poco meno di un mese dopo avrebbe ucciso Aldo Moro) lo trafiggono facendolo stramazzare sul sedile dell’auto.
In pochi – pochissimi – ricordano il suo nome, perché, a differenza di altri suoi colleghi parimenti periti in quegli stessi anni – gli anni di piombo - Riccardo Palma non era un giudice schierato in prima linea.
Come scrissero i giornali del tempo, la sua era una figura simbolica, ed era a quel simbolo dello Stato e della democrazia che si era inteso attentare.
Furono le Brigate Rosse, appena due ore dopo la sparatoria, a rivendicare l’omicidio, sostenendo che Palma stava perseguendo una «progettazione scientifica della distruzione totale dei comunisti e dei proletari detenuti attraverso l’applicazione nelle carceri delle più moderne tecniche sperimentate dall’imperialismo internazionale».
Erano, quelli, gli anni in cui le azioni delle Brigate Rosse erano al loro culmine. Dopo una fase di “propaganda armata” con attentati dimostrativi all'interno delle fabbriche e sequestri di dirigenti industriali e magistrati, tra il 1974 e il 1976 erano stati tratti in arresto o uccisi i principali brigatisti del gruppo iniziale. La direzione dell'organizzazione era perciò passata ai brigatisti nel nuovo Comitato Esecutivo, in cui fu Mario Moretti ad assumere un ruolo determinante, che portò al potenziamento della capacità logistico-militare del gruppo e all’estensione della sua azione – fino ad allora concentrata al Nord - a Roma e Napoli.
Tra il 1977 e il 1980 si erano dunque moltiplicati, diventando sempre più cruenti, gli attacchi contro politici, magistrati, industriali e forze dell'ordine, tanto da far temere che il movimento fosse ormai in grado di influire in modo decisivo sull'equilibrio politico italiano e di poter sovvertire l'ordine democratico della Repubblica, come avrebbe dimostrato l’assassinio di Moro.
Palma era solo uno degli “operai” di quella nuova fabbrica che lo Stato aveva da poco messo in piedi, quando, l’estate dell’anno precedente, aveva affidato al generale Dalla Chiesa l'istituzione delle carceri speciali: Asinara, Favignana, Cuneo, Messina. Palma era stato un suo collaboratore ma non credeva di dover temere alcun attentato, tanto da non aver richiesto alcuna scorta, sebbene fosse un abitudinario e, dunque, un uomo abbastanza prevedibile.
Ma proprio questa sua apparente marginalità sarebbe diventata il bersaglio da colpire: come scrisse il Corriere della Sera all’indomani dell’attentato, Palma era un “muratore delle carceri”, un “tecnico delle costruzioni” - estraneo alla politica della detenzione - che si occupava di lavori, di tempi, di costi, di collaudi. Ma per i brigatisti ciò significava rendere più sicure le “carceri speciali” e bastava perciò ad etichettarlo come un “servo delle multinazionali”.
Era un anonimo servitore dello Stato - un servo civile - e "un magistrato democratico", come lo definì "l'Unità"; anni dopo, suo figlio Fabio – 26enne all’epoca dei fatti -, che fu tra i primi ad accorrere in strada dopo aver udito i colpi e visto dalla finestra della sua camera il capannello di gente attorno all’auto di suo padre, dirà che era stato ucciso perché era “un obiettivo semplice” e che “fu colpito in quanto simbolo e non per le funzioni che ricopriva” visto che non si occupava di terrorismo.
E, difatti, in quel caso, la logica delirante delle Brigate Rosse seguiva un altro percorso: chi si occupava della popolazione detenuta – che comprendeva, tra l’altro, anche i propri militanti reclusi – era simbolo dello Stato autoritario e violento, destinato perciò a divenire bersaglio della nuova «campagna contro il trattamento carcerario dei prigionieri politici».
La stessa sorte di Palma, per mano dei brigatisti, sarebbe dunque toccata di lì a poco ad altri suoi due colleghi:
Girolamo Tartaglione, ucciso il 10 ottobre 1978 mentre stava rientrando a casa dal Ministero della Giustizia, presso cui rivestiva l’incarico di Direttore Generale degli Affari Penali, dopo essere già stato capo di un ufficio della Direzione degli Istituti penitenziari e aver collaborato alla redazione del nuovo ordinamento penitenziario. Importante era stato, tra l‘altro, il suo contributo alla costruzione, negli istituti penali, di reparti destinati all'assistenza post-penitenziaria dei detenuti e al potenziamento delle strutture per la risocializzazione dei condannati.
Girolamo Minervini, che il 18 marzo 1980, fu ucciso sull'autobus che lo stava portando al Ministero della Giustizia da un uomo che era poi riuscito a fuggire continuando a sparare per farsi largo tra i passeggeri.
Solo il giorno prima il giudice aveva assunto l’incarico di Direttore Generale degli Istituti di prevenzione e pena; già prima, molta parte del suo impegno professionale era stata dedicata alle attività connesse alla organizzazione degli istituti di pena e allo studio della normativa penitenziaria.
Nei due anni successivi agli omicidi di Palma e Tartaglione la situazione delle carceri era divenuta ancora più difficile, segnata dalla rivolta brigatista dell'Asinara (ottobre 1979) e dalle proteste contro il decreto antiterrorismo (dicembre 1979). Minervini era dunque consapevole del rischio che correva, viste le preoccupanti notizie su possibili nuovi scontri nelle carceri; tuttavia, quando gli era stato proposto per l'incarico di direttore generale degli Istituti di prevenzione e pena aveva detto ai familiari che «in guerra un generale non può rifiutare di andare in un posto dove si muore», e aveva deciso di rifiutare la scorta armata per non esporre a rischio la vita di giovani agenti.
Palma, Tartaglione, Minervini: nomi pressoché sconosciuti o dimenticati.
Lo stesso non sia però del loro esempio di uomini di giustizia che, con il loro sacrificio, hanno contribuito a tessere la trama di un tessuto di legalità con cui dovrebbe forgiarsi la bandiera di uno Stato realmente libero e democratico, in cui la Magistratura non ceda – come purtroppo a volte accade – né ai compromessi né ai ricatti della paura.