«Io sono più trapanese di voi perché ho scelto di esserlo».
Era questo il motto di Mauro Rostagno, sociologo e giornalista torinese che della Sicilia aveva fatto la sua prima casa, scegliendo, tra le tante vite che a soli 46 anni aveva già vissuto, quella per cui valeva davvero la pena vivere e anche morire: la lotta alla mafia.
Quelle stesse parole sono incise oggi sulla stele che, in contrada Lenzi, frazione di Valderice, provincia di Trapani, segna il punto esatto in cui il 26 settembre 1988 venne barbaramente ucciso, crivellato dai colpi d’un fucile a pompa.
Sulla sua tomba, invece, in tragico ed efficace contrasto con l’immobilità ed il silenzio cui quei colpi avrebbero dovuto condannarlo, un’altra iscrizione rammenta il senso del suo sacrificio: “Mauro Rostagno Vive nella lotta quotidiana contro tutte le ingiustizie”.
E, difatti, a trentadue anni dal suo tragico assassinio, Mauro, il giornalista vestito di bianco – quasi a voler evocare il candore di una società limpida e incorrotta cui aspirava - e che, senza mezzi termini, indicava ed accusava con nomi e cognomi protagonisti di mafia e malaffare, fa ancora parlare di sé lasciando aperta una serie di interrogativi: su quanto aveva scoperto nel corso delle sue inchieste, su quali personaggi e di quale scena rischiassero d’essere coinvolti, su chi furono i mandanti del suo omicidio.
A quest’ultimo interrogativo, dopo dieci anni di un processo che ha mosso i suoi primi passi solo nel febbraio del 2011, ha risposto la Cassazione lo scorso 27 novembre, confermando la condanna emessa dai giudici di Appello di Palermo, che avevano ritenuto colpevole come mandante – condannandolo all’ergastolo - il boss Vincenzo Virga, mentre avevano assolto dall’accusa d’essere l’esecutore Vito Mazzara “per non aver commesso il fatto”, nonostante il suo DNA fosse risultato compatibile al 99,9% con quello estratto dal sottocanna del fucile usato per l’omicidio, esploso in mano a chi l’aveva azionato.
Ad uccidere Mauro, dunque, è stata la mafia.
Tra misteri, omertà, depistaggi e contraddizioni tendenti a distogliere l’attenzione da quello scenario fatto di connessioni tra servizi segreti deviati, mafia, politica e massoneria, su cui in quegli anni ’80 pochi, coraggiosi e solitari tutori della giustizia cercavano di far luce, questa, infine è stata la conclusione tratta.
Un esito scontato secondo coloro che l’hanno a lungo atteso – la sorella Carla, la compagna Chicca Roveri, la figlia Maddalena – sebbene resti l’amaro per quel vuoto non colmato dal nome d’un killer.
Avrebbe di certo preferito un’altra giustizia, Mauro, quella verso cui lo stavano guidando le sue ricerche, più rispondente al suo ideale d’una società retta e leale che - parafrasando il Galileo di Brecht - non avesse bisogno d’eroi. E nemmeno di martiri.
Il suo ritratto più vero l’ha tracciato proprio sua figlia, al processo di primo grado in Corte d’Assise, a Trapani, quando disse “mio padre voleva fare il terapeuta di questa città”, con ciò indicandone lo sforzo diretto a far prendere coscienza ai suoi concittadini della dilagante corruzione che li attorniava, della necessità che con la mafia non si dovesse convivere ma la si dovesse isolare, incalzandola a colpi di giustizia.
Quella di Mauro è stata una vita eccezionale; una storia che tutti dovrebbero conoscere per comprendere come con certi ideali si nasce, quasi fossero un’impronta genetica, e con essi - e per essi - ugualmente si muore.
A Trapani era arrivato nel 1986, inaugurando l’ultima delle sue tante vite.
Con Renato Curcio era stato uno dei leader delle lotte studentesche del ’68 a Trento; con Adriano Sofri aveva fondato Lotta Continua e, a Milano, era stato animatore del famoso centro culturale Macondo, punto di ritrovo dei “delusi dalla politica”; era poi andato in India, alla scoperta delle filosofie orientali, sulle orme degli “arancioni” seguaci del guru Osho. Infine era approdato in Sicilia, a Lenzi, dove aveva dato vita a sua volta ad una comunità di arancioni, la Saman, poi trasformata in comunità di recupero dei tossicodipendenti.
Si era quindi reinventato giornalista, dopo aver partecipato ad una trasmissione della RTC, una televisione locale, per cui aveva poi cominciato a condurre un programma di denuncia delle collusioni tra la mafia e la politica locale, incitando la gente onesta a ribellarsi contro la stagnante omertà, a porre fine ad uno stato di cose che, come avrebbe poi detto il procuratore della Repubblica Antonino Coci, nessuno pareva aver interesse a contrastare, dal momento che «la mafia ha portato soldi, benessere, lavoro e tranquillità».
La sua condanna a morte era probabilmente già stata sentenziata quando, durante la sua trasmissione, seguendo le udienze del processo per l’omicidio del sindaco di Castelvetrano, Vito Lipari, nel quale erano imputati i boss mafiosi Nitto Santapaola e Mariano Agate, aveva attaccato direttamente quest’ultimo che, per tutta risposta, dalla stessa aula del Tribunale dov’era processato aveva replicato con un «Diteci a chiddu ca varva e vistutu di bianco ca finissi di riri minchiati».
Negli ultimi tempi, prima della sua esecuzione, Mauro pare avesse scoperto, nel vecchio aeroporto di Kinisa, un traffico d’armi e rifiuti tossici con la Somalia, cogestito da Cosa Nostra e da settori deviati dei servizi segreti. Il depistaggio delle indagini successive al suo omicidio pare sia partito proprio da qui, quando i vertici del Sismi, l’ex servizio segreto militare, opposero il segreto di Stato ai magistrati di Trapani che volevano approfondire il ruolo svolto da alcuni agenti in Sicilia.
Mauro di certo fu ucciso per quello si stava preparando a dire, qualcosa che aveva messo insieme in una videocassetta che teneva sulla sua scrivania, con su scritto “Non toccare!” e che dopo la sua morte scomparve misteriosamente. Una traccia evidentemente consistente, che forse avrebbe potuto rivelare qualcosa di più, come ha dichiarato l’ex Procuratore aggiunto Antonio Ingroia - che ha istruito il processo Rostagno - che si è sempre detto convinto che il suo fu un omicidio di mafia ma non solo, lasciando intravedere uno scenario più complesso, in cui diversi depistaggi – primo tra tutti quello che aveva portato addirittura in carcere Chicca Roveri, accusata dell’ omicidio del marito - hanno contribuito a evitare si facesse piena luce.
Ora la conclusione è definitivamente giunta; “in nome del popolo italiano” la giustizia terrena ha riconosciuto un colpevole, che non ha, tuttavia, un solo volto e due sole mani, ma centinaia: quelli di una solida “istituzione” – la mafia – non ancora doma, non ancora agonizzante, che, impugnando un’arma, si illude di ridurre al silenzio le voci che la contrastano, quando invece è proprio con la morte che le rende più forti.
semplicemente grazie per questo prezioso contributo sula vita di una bella persona come era Mauro. Varrebbe la pena diffonderlo ovviamene con la Vs autorizzazione e indicandone la fonte.