È un primo maggio diverso.
Nella sua forma, certo. Ma nella sostanza è invece più vivo che mai.
È un giorno senza raduni affollati di manifestanti, senza cortei, senza celebrazioni.
È il primo maggio di una Piazza San Giovanni vuota, senza la lunga maratona degli artisti che si susseguono in esibizioni rivelatrici di impegno politico e di quel pubblico variegato per cultura ed età - ed altrettanto impegnato - che, incurante della pioggia battente o del sole a picco, bivacca senza orario sotto il palco più famoso d’Italia.
È la festa di metà settimana, di ponte o di week end lungo che di solito regala un anticipo d’estate, e che invece quest’anno resta senza gita fuori porta, fave e pecorino, primo bagno a mare.
Ma è, prima di tutto, la giornata del più eclatante dei “senza”, che, dal silenzio e dall’isolamento di questo tempo, fa più che mai rumore.
Ed è il rumore acuto e pungente di un grido di protesta, che torna indietro al passato, alle lotte di fine ottocento per la riduzione dell’orario di lavoro ed alle conseguenti stragi dei manifestanti, per riproporsi oggi - in una nuova veste - che appare più di disperazione che di protesta, e dà voce ai tanti rimasti senza lavoro o che, pur avendolo formalmente conservato, sono rimasti senza stipendio.
È un primo maggio simbolo di una nuova lotta, più vicina al bisogno ancor più che al diritto. È quella di un esercito di camerieri, pizzaioli, cuochi, garzoni di bottega, parrucchieri, baristi, fattorini, tassisti, autisti di bus turistici, lavoratori a giornata o a settimana, artigiani: gente di fatica, rimasta senza fatica, che fatica più che mai.
È la nuova “Crociata dei Pezzenti”, mandati allo sbando, lasciati soli: quelli che non hanno diritto a cassa integrazione; quelli che riescono a versare i contributi Inps a salti e balzelli, in rapporto sproporzionato rispetto agli anni che hanno effettivamente lavorato; quelli che precipitano senza paracaduti sociali; quelli ridotti all’umiliazione di una “paghetta” grattata dalle misere pensioni di anziani genitori.
Quelli che hanno sempre preso schiaffi dalla vita e non hanno ancora finito.
È il primo maggio di una Costituzione tradita, di Articoli che pare coniughino i verbi sbagliati, di diritti affermati che ridondano nelle parole e si scarnificano nei fatti.
L’hanno chiamato il Primo Maggio della “Resilienza”, quella parola tanto di moda e tanto abusata che declina la straordinaria capacità di rimettersi in piedi dopo una caduta, di autoripararsi dopo aver subito un danno e riuscire a riorganizzarsi positivamente. Un termine suggestivo, evocativo, che nella pratica presuppone però una base, un suolo su cui poggiare per consentire la spinta necessaria a risollevarsi.
Ed è quello che ora manca.
C’è un’immagine che, più che la Marcia del Quarto Stato, mi ha sempre fatto pensare all’impegno, alla fatica ed alla dignità dei lavoratori e, ancor più, al loro coraggio ed alla loro speranza: è la foto che ritrae undici operai che consumano il pranzo seduti su una trave sospesa a 250 metri d'altezza, a New York, mentre sta sorgendo il grattacielo del Rockefeller Center.
Era il 1932, l’epoca della Grande Depressione. Eppure quegli uomini (che, chissà com’è, mi è sempre piaciuto pensare fossero emigrati italiani) sono sereni, ispirano ottimismo, sanno di volontà di rinascita e di riscatto, sospesi su uno spazio che pare potersi riempire di opportunità, in cui pullulano la vita, le promesse, la crescita.
Se oggi, sospeso su quella stessa trave ci fosse il nostro esercito di lavoratori traditi – dall’inefficienza, prima ancora che dalla pandemia - sotto di esso non percepirebbe altro che il vuoto, un inesorabile vuoto.