Che bambini fortunati siamo stati ad essere cresciuti con certe favole che le nuove generazioni nemmeno conoscono più!
Credo sia questo il pensiero che avrà fatto ogni adulto di mezza età che sia entrato nelle sale cinematografiche in questi giorni, attratto più dalla voglia di recuperare un ricordo che non da chissà quali aspettative per il nuovo film del regista di Gomorra.
E sicuramente ne sarà uscito rigenerato, con negli occhi quella antica meraviglia e quello spirito gaio che la favola di Collodi ha regalato all’infanzia delle generazioni pre-millenial.
Il Pinocchio di Matteo Garrone, infatti, prima ancora che una bellissima favola è un ritorno ad un tempo lontano, all’essere bambini di mezzo secolo fa, quando l’infezione dei video giochi, dei cartoni animati giapponesi e delle serie tv non era nemmeno presagita.
È un riscoprire l’assoluta fedeltà di ciò che si proietta sullo schermo ai disegni di un libro illustrato che non mancava mai negli scaffali di nessuna cameretta, a quelle figure che molto spesso sostituivano le parole scritte di un volume con troppe pagine da leggere e che tenevano il segno ai racconti pazienti di madri e padri che lo riassumevano ai loro figli.
Le moderne tecnologie, la grafica computerizzata di certo aiutano a convertire i ricordi in forme più fedeli all’immaginario d’allora, ad animare e colorare quelle figure statiche dei libri, rendendole realistiche come lo erano allora in tenere menti che stupore ed inventiva rendevano vivaci e feconde.
Garrone sa riproporre con fedeltà estrema simboli, significati ed allegorie della favola originale, senza eccessi né sbavature, ottenendo il risultato paradossale di una incredibile attualità dei suoi temi, che si calano perfettamente nel tessuto sociale moderno, nella morale dei giorni nostri, rivelando come alcuni insegnamenti siano, oggi come ieri, validi e necessari.
C’è dunque una coscienza grillo parlante che rimanda a condotte reali affatto irricorrenti, quando ammonisce a non fidarsi di chi “promette di farti diventare ricco dalla sera alla mattina”; c’è una scimmia-giudice che condanna gli innocenti, secondo una regola (che pare altrettanto vera ai giorni nostri) per cui “gli innocenti vanno in prigione”; ci sono burattini mossi da fili, che ricordano altrettante teste di legno che, quotidianamente, vengono manovrate su scenari insospettabili; ci sono un gatto e una volpe voracissimi che ingannano il prossimo per mangiare alle sue spalle; ci sono voci in apparenza innocenti che invitano a salire su carrozzoni che promettono viaggi verso un paese dei balocchi dove, invece, appena svelata l’illusione, ci si risveglia somari.
Ed il tutto è calato in una realtà senza tempo e senza spazio, che, proprio per questo, può essere un qualunque tempo e un qualunque luogo.
C’è poi la metafora più grande e sublime, quella che dà senso alla favola, rimandando il messaggio di una redenzione che è sempre possibile, perché c’è un cuore – che vive e pulsa – anche oltre ciò che si nasconde dietro una corteccia dura ed inscalfibile.
Geppetto lo sente quel cuore, già mentre intaglia il tronco di legno che diventerà suo figlio, la cui nascita proclamerà entusiasta al mondo – “m’è nato un figliolo!” – che tuttavia resterà indifferente a quella gioia in grado di fargli dimenticare persino i morsi della fame e la sua estrema povertà.
Benigni è meraviglioso in quel ruolo: è il Geppetto magro e scavato che abbiamo sempre immaginato, l’artigiano povero e solo che, nonostante gli stenti, non ha perso ancora la meraviglia e nemmeno la speranza che quel figlio inatteso possa rappresentare il suo riscatto e la gioia dei suoi anni di vita residui.
Prima, però, dovrà passare per lo sconforto e la sofferenza, quella che tocca a ciascun padre che si scontra con la generazione successiva, che non comprende e che si sente a sua volta incompresa. E allora deve lasciarlo andare quel figlio ingrato, affinché da solo possa sperimentare tutto ciò che non sa ancora essere vacuo ed illusorio, per tornare, infine, sui suoi passi, dopo aver compreso la forza di un amore vero e disinteressato come solo può essere quello di chi - qualunque sia stato il modo - l’ha messo al mondo.
Ed eccolo, allora, il miracolo: le venature del legno sbiadiscono, la rugosità della superficie si leviga quando Pinocchio impara ad accogliere a sua volta la fatica, l’impegno ed il dolore pur di ricambiare tutto quell’amore che prima ha mandato sprecato.
Girare il bindolo in cambio di una tazza di latte da poter portare al suo stanco padre-creatore è la ricchezza più grande che possa guadagnare, altro che mille zecchini d’oro!
Ed è allora che diventa bambino. È la metafora più potente della favola, una verità di sempre: generosità, altruismo, agire disinteressato bastano da soli a cambiare l’animo di chiunque, ad ammorbidirne la corteccia, a renderlo umano.
Un plauso ed un grazie a Garrone per avercelo ricordato, alla maniera che si usa con i bambini e che a volte per i grandi vale anche di più.