venerdì, 02 maggio 2025

1 febbraio 2020

Kobe

Autore: Ester Annetta
Non sono un’appassionata di basket e, lo ammetto, non sapevo chi fosse Kobe Bryant.

Il grande clamore suscitato dalla sua morte, gli elogi, le commemorazioni, le testimonianze e i post che l’hanno accompagnata mi hanno indotto a credere che non fosse soltanto un grande campione della pallacanestro ma che fosse anche una persona dotata di grandi virtù.

La morte, si sa - come disse il grande Principe dei Comici - è una livella, non solo perché accomuna ogni essere umano indipendentemente dalle sue origini, dal ceto, dalla sua posizione sociale, ma perché tende a “condonare” eventuali difetti a tutto vantaggio dei meriti, per cui c’è il rischio che si tenda ad enfatizzare la condotta di chi non c’è più ben oltre i suoi reali meriti.

Ho dunque cercato in rete quante più informazioni possibili per avere un’identità da far indossare a quello che per me era solo un nome improvvisamente divenuto ricorrente nei discorsi, nei notiziari, sui giornali, e per capire se il profluvio di lodi che ne accompagnava la memoria avesse o meno concrete fondamenta.

Con un tempismo spaventoso, Wikipedia ne aveva già aggiornato la pagina di riferimento, coniugando tutti i verbi all’imperfetto ed aggiungendo accanto alla data di nascita quella di morte.

Kobe Bryant, dunque, è già passato: è storia; è leggenda.

Leggo di un bambino vissuto più di trent’anni fa in Italia: una promessa del basket già allora quando, al seguito delle squadre in cui militava il suo papà – giocatore di basket a sua volta – scendeva sul parquet durante gli intervalli delle partite e tirava da solo, centrando sempre il canestro.

Vedo qualche foto: lui, unico ragazzino di colore, schierato tra gli altri nella foto di classe; gli occhi vivi e fieri, proiettati verso la visione di un avvenire che aveva già ben chiaro, nonostante i suoi compagni lo deridessero per la sua audacia e la sua ambizione.

Reggio Calabria, Rieti, Reggio Emilia e Pistoia: città culla, casa, rifugio in una patria adottiva che lo aveva accolto insieme alla sua famiglia e di cui aveva appreso la lingua così bene da parlarla correttamente senza timore delle sue insidie.

Lo ritrovo adolescente, qualche anno dopo, a Philadelphia, dove era tornato per frequentare il liceo. Era già alto quasi due metri, il basket continuava ad essere la sua passione e la sua ossessione, l’idea di diventare qualcuno sfondando nella NBA il suo chiodo fisso.

Si chiama tenacia quella fermezza e quella perseveranza che si profondono nei propositi e nelle azioni; e Kobe ne aveva tanta. Non gli importava di partire dal basso né di dover attendere, perché era certo che prima o poi avrebbe raggiunto la vetta. E difatti, a 17 anni, aveva indossato per la prima volta la maglia viola dei Lakers, esordendo così nell’NBA senza nemmeno passare attraverso il campionato universitario, che di solito è una tappa obbligata.

Da lì in poi era stato un susseguirsi di vittorie, di successi, di conferme. Kobe era asceso all’olimpo dei vincitori: il suo tocco portentoso gli era valso il nome di Black Mamba, quello di uno dei serpenti fra i più velenosi al mondo, che, veloce e a ripetizione, va a segno nel 99 per cento dei casi.

Leggo, poi, di un tempo in cui la scia luminosa che l’accompagnava si era offuscata, per via del suo coinvolgimento in una brutta vicenda di violenza sessuale ai danni di una 19enne in Colorado. Kobe non aveva negato di aver avuto un rapporto con la donna, ma aveva precisato che era stato consensuale.

Quella vicenda, però, non aveva di certo giovato alla sua immagine, e c’era voluto parecchio tempo prima che la riabilitasse.
Quindi ancora partite, campionati, vittorie, fino ad arrivare ai tempi più recenti.

Ed è qui che finalmente trovo quel quid che mi restituisce l’immagine non del campione da tutti riconosciuto, ma di qualcosa di più: un uomo la cui ricchezza non è di quelle che riempiono un conto in banca ma di quelle che rendono nobile l’animo in vita ed immortale la memoria dopo la vita.

Quando nel 2018, a 40 anni, Kobe decise che era arrivato il momento di appendere al chiodo la sua maglia numero 24, aveva compiuto uno dei gesti d’amore più belli che si possano sperare da chi dica un addio.

Aveva scritto una lettera, ma non ai suoi compagni di squadra, al suo allenatore o ai suoi tifosi, come tutti si sarebbero aspettati. L’aveva scritta alla pallacanestro: quella passione, quella regione di vita, che aveva alimentato i suoi passi ed i suoi sogni fin da bambino.

“Dal momento in cui ho cominciato ad arrotolare i calzettoni di mio padre e a lanciare immaginari tiri della vittoria nel Great Western Forum ho saputo che una cosa era reale: mi ero innamorato di te. Un amore così profondo che ti ho dato tutto, dalla mia mente al mio corpo, dal mio spirito alla mia anima […] Hai chiesto il mio impegno, ti ho dato il mio cuore perché l’ho riavuto con molto di più […] Per te ho fatto ogni cosa, perché questo è quello che fai quando qualcuno ti fa sentire vivo, come tu facevi sentire vivo me. Hai donato ad un bambino di 6 anni il suo sogno di essere uno dei Lakers e per questo ti amerò per sempre. […] Ci siamo dati entrambi tutto quello che avevamo. E sappiamo entrambi che non importa cosa farò: rimarrò per sempre quel bambino con i calzettoni arrotolati e il cestino dei rifiuti nell’angolo”.

Era stata una lettera d’amore, prima ancora che di commiato, e anche un meraviglioso gesto di gratitudine che non si sarebbe fermato sulla carta, ma si sarebbe tramutato in immagini e note e avrebbe viaggiato in ogni parte del mondo.

Il corto cinematografico che aveva incarnato i suoi ricordi e la poesia delle sue parole sarebbe valso a Kobe addirittura un Oscar.

È qui che la mia ricerca si è fermata, non mi è servito altro. L’immagine che ho davanti è quella del breve discorso tenuto dal campione mentre regge in mano la preziosa statuetta: l’occasione per ribadire ancora una volta al mondo il suo amore per il basket e mostrare quanto quell’amore gli fosse stato ricambiato, col dono di aver realizzato il suo sogno e di aver avuto una vita piena di tanto altro amore. Quello della sua famiglia.

“Ti amerò per sempre”, ha detto a sua moglie, proprio come lo aveva detto al basket, nella sua lettera.

E lo ha detto proprio così, affidandosi alla lingua dell’altra sua patria, quella lingua con cui, da bambino, aveva probabilmente iniziato a raccontare i suoi sogni.

Chi sia Kobe Bryant ora lo so.
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Foto profilo
04/02/2020

GRANDE KOBE. ANCHE IO HO CONOSCIUTO IL PERSONAGGIO DOPO LA SUA DIPARTITA.