mercoledì, 07 maggio 2025

20 marzo 2021

La guerra dei dieci anni

Autore: Ester Annetta
Darwish ha circa trent’anni e fa l’autista.
Più esattamente guida i bus turistici, quelli utilizzati per le escursioni dei gruppi-vacanza.
Ha una moglie e quattro bambine d’età compresa tra i due e i dieci anni.
In famiglia, è lui l’unico a lavorare.

Darwish è siriano.

L’ho conosciuto circa tre anni fa, quando visitai il Libano (cfr. Libano: terra promessa e di riscoperta del 28 luglio 2018) insieme ad un gruppo di “volontari di pace” cui un comune amico – un monaco maronita libanese, trapiantato a Roma da qualche anno – aveva voluto far conoscere la sua terra.
Non parlava italiano Darwish, ma, nel corso di quella settimana in cui ci aveva condotti tra le meraviglie di luoghi di incredibile bellezza, grazie a Fra’ Michel che faceva da interprete, avevamo conosciuto la sua storia.
Probabilmente non sarà stata molto dissimile da quella di migliaia d’altri profughi scappati dalla tragedia siriana, quella d’una guerra che proprio in questi giorni ha compiuto dieci anni; si considerava tuttavia fortunato, perché aveva una bella famiglia (allora di figlie ne aveva solo tre) e, soprattutto, un lavoro, con i cui guadagni tirava avanti, a fatica, sì, ma libero.
Il dolore d’aver dovuto lasciare la sua terra ed i suoi affetti trovava infatti conforto in una ritrovata serenità, ritagliata in un lembo di terra poco oltre i confini della propria e divenuta ormai la sua nuova casa.

È venuto perciò naturale, alla fine del viaggio, decidere di continuare a mantenere un legame con Darwish, avere notizie sue e della sua famiglia, dare, soprattutto, un supporto alle sue bambine affinché potessero andare a scuola, dal momento che – non potendo accedere all’istruzione pubblica – dovevano necessariamente frequentare un istituto privato.
Quella catena di solidarietà nata sul campo da allora non s’è più interrotta. Darwish e la sua famiglia sono stati “adottati a distanza”, con un moto spontaneo e solidale che chiunque sia stato tanto fortunato d’esser nato in una terra libera dovrebbe naturalmente sentire nei confronti dei propri simili oppressi.

Il punto è che la portata di alcune grandi vicende s’apprende alla nostra conoscenza ma sfiora solo la superficie delle nostre coscienze fin quando resta un insieme di informazioni, di notizie, che, per quanto dettagliate, non ci “convincono” quanto una testimonianza immediata e diretta dei fatti. Diverso, invece, è quando dalla vicenda generica si stacca la storia singola, il dramma concreto e reale vissuto sulla pelle di individui con identità precise. La compassione – intesa proprio nel suo significato originario di partecipazione alla sofferenza altrui – intacca allora anche la coscienza, ci rende capaci di comprendere il senso vero d’un dolore che è visibile e non solo narrato, ci induce infine a domandarci “cosa posso fare?” ed a trovare risposta in gesti significativi – anche piccoli e materiali – d’aiuto e di conforto.

Quella siriana è una guerra di cui quasi quotidianamente sentiamo parlare, tanto da esser diventata una ricorrenza cui spesso non si fa più caso, marginale, a volte riempitiva di qualche buco nei tempi dei telegiornali o di esigui spazi sui quotidiani.
Dura da così tanto tempo da non far più notizia, salvo le volte in cui qualche episodio più eclatante la riproponga alla ribalta di quella che è, tuttavia, una cronaca che spesso si ferma sul limite del dovuto e sul bordo dell’indifferenza.

Dovremmo invece ricordarcene che, in un oriente non troppo lontano da noi, oltre una prima linea di frontiera che altri profughi ed altri migranti tentano di scavalcare giungendo dalla rotta balcanica, ce n’è un’altra, meno prossima, lambita tuttavia da un tratto di un unico Mediterraneo, che troppo spesso scordiamo essere un mare “nostrum”.
Così come occorrerebbe maturare la primaria consapevolezza che non contano le ragioni di una guerra, ma l’irragionevolezza della guerra stessa.

Quello siriano è un conflitto complesso, nato da un’iniziale protesta pacifica contro la dittatura di Bashar al-Assad e trasformatasi ben presto in una vera e propria guerra in cui, sullo scontro interno tra le tre etnie presenti sul territorio (sunniti, sciiti e curdi), si è innescata una girandola di giochi di potere e di interessi di diversa natura, economici in primis, che ha visto contrapporsi ancora una volta le manovre di due grandi potenze rivali da sempre, gli USA e la Russia.

È la guerra che ha favorito la nascita dell’ISIS, che ha persino generato una guerra nella guerra contrapponendo filoni ideologici diversi interni ad una stessa etnia, che ha fornito occasione ad altri territori (come la Turchia) per avanzare ulteriori, assurde, rivendicazioni.

Ma, soprattutto – ed è alla fine quello che davvero conta – è la guerra che ha distrutto un Paese.
La Siria non esiste più, non solo perché è divenuto un mosaico incontrollabile di popolazioni e autorità indipendenti - e, come tale, estremamente vulnerabile – ma soprattutto perché è ormai un cumulo di macerie, di morti e di sfollati.
È una terra devastata, sfregiata oltre ogni misura, dove circa il 90% della popolazione – secondo le stime dell’Onu - versa in condizioni di estrema povertà, in balia di una economia sprofondata, di un’inflazione fuori controllo, della corruzione.
Le scuole e gli ospedali sono distrutti, non c’è più pane da mangiare né combustibile per riscaldarsi. La pandemia dilaga, ben oltre i numeri ufficiali, che non possono conoscersi realmente dal momento che il sistema sanitario è collassato: non ci sono macchinari, medici, infermieri e nemmeno abbastanza mascherine ed ossigeno.

Ma quel che è più grave è che un’intera generazione ha perso l’infanzia: dieci anni - di guerra - sono la durata d’una infanzia.
Circa il 90% dei bambini ha bisogno di assistenza umanitaria; 6,2 milioni rischiano di restare senza cibo; almeno 137.000 minori sotto i cinque anni di età soffrono già di malnutrizione acuta (il 20% in più rispetto allo scorso anno) e mezzo milione soffre di ritardi nello sviluppo per lo stesso motivo; 1,3 milioni sono quelli che rischiano fortemente di perdere l'istruzione, principalmente per l’impossibilità di affrontare i costi scolastici; quelli uccisi o feriti durante questi dieci anni di conflitto sono circa 20.000 e più di 5.700 - alcuni anche di sette anni - sono quelli reclutati dai combattenti.

Non sono solo numeri, non è solo statistica: è invece il disegno tragico del saccheggio d’una generazione, cui è stata rubata la spensieratezza della fanciullezza e negato il futuro.
È un’autentica catastrofe umanitaria, una sconfitta della civiltà, una scandalosa accusa che va rivolta contro coloro che dimostrano di disprezzare il valore della vita a fronte del prevalere degli interessi e del potere.

Darwish oggi non ha più lavoro e nemmeno il Libano che l’ha accolto è più un luogo sicuro.
Ma quel che riesce a racimolare con qualche lavoretto fatto qua e là e con l’aiuto che riceve dai suoi amici italiani gli consente di poter mandare a scuola le sue figlie, perché ci crede ancora che il sapere e la conoscenza sono lo strumento attraverso cui può costruirsi un futuro che non replichi gli errori del passato.

Di tanto in tanto al gruppo dei “volontari di pace” Darwish manda filmati delle sue bambine: delle loro recite scolastiche, dei loro disegni, dell’alfabeto recitato a mò di canzoncina, dei loro “grazie” scanditi in un italiano stentato.

Soprattutto manda i loro sorrisi, in cui, nonostante tutto, si leggono ancora fiducia e speranza.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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Foto profilo
22/03/2021
EDC STUDIO DI BELLINI GIANCARLO E C. SAS EDC STUDIO DI BELLINI GIANCARLO E C. SAS

Oltre alla bravura, apprezzo la grande sensibilità nello scrivere gli articoli che riesce a trasmettere emozioni. Grazie. Giancarlo Bellini

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20/03/2021
pasquale bernardo

grazie per questa preziosa testimonianza. La solidarietà e l'impegno civile a favore di chi soffre sono la vera ricchezza di un essere umano.