giovedì, 15 maggio 2025

3 ottobre 2020

Mors tua vita mea

Autore: Ester Annetta
Premeditazione.

È un termine che, benché di largo uso nel diritto penale, non trova una sua peculiare definizione nel relativo codice. Alla stessa stregua di altri termini – quali “volontà” o “negligenza”, che si utilizzano per definire il dolo o la colpa – il suo significato resta, pertanto, quello generico, mutuato dal lessico italiano.

“Premeditato” è, dunque, ciò che la linguistica definisce qualcosa di "pensato, meditato anticipatamente; elaborato con la mente, organizzato da tempo in tutti i particolari", così come “premeditare” significa "maturare dentro di sé il proposito di compiere un'azione criminosa, illecita, non buona o comunque ritenuta punibile, fissandone già in precedenza le modalità di attuazione"

È così che ha agito Antonio De Marco quando, la sera del 21 settembre scorso, seguendo un tragitto che aveva studiato per escludere telecamere di sorveglianza che avrebbero altrimenti potuto riprenderlo, ha raggiunto Daniele De Santis e Eleonora Manta nella casa dov’erano appena andati a convivere e che fino a qualche tempo prima era stata anche casa sua.

Quel che aveva in mente di fare pure era stato dettagliatamente studiato e annotato su dei foglietti: voleva compiere un massacro, di cui aveva persino calcolato tempi – 90 minuti – e modalità, anche quelle della successiva pulizia delle tracce.

60 coltellate, inferte con una furia cieca, persino sul volto delle vittime, come se di loro volesse cancellare ogni cosa, anche le sembianze.

La barbarie con cui quei corpi sono stati massacrati basterebbe da sola a rappresentare l’atrocità del delitto. Ma oltre alle coltellate, al sangue, all’irremovibilità dell’assassino che ha continuato ad infierire sulle vittime anche quando l’imploravano di fermarsi, fino a spegnere la loro voce, l’elemento più agghiacciante della vicenda è la ragione di quel gesto.

“Li ho uccisi perché erano troppi felici…”

Antonio ha 21 anni, studia per diventare infermiere e ha tutta la vita davanti.
Ciò che però gli manca – che, in maniera preoccupante, manca forse a tutti quelli della sua generazione, – è l’empatia, la capacità di comprendere lo stato d'animo altrui, sia che si tratti di gioia che di dolore, e di immedesimarvisi. Piuttosto che dal "sentire dentro" del moto empatico, Antonio è mosso dal “guardare contro”, che è il significato letterale di quel “in-videre” latino che esprime un sentimento totalmente opposto.
Invidia.
“…e per questo mi è montata la rabbia".
Rabbia, ostilità nascosta, desiderio di danneggiare, di privare l’altro di ciò che lo rende invidiabile, appunto.

Antonio, che tutti descrivono come timido e riservato, ha quella serpe che gli cova dentro e che – a soli 21 anni, quando ha ancora un universo di esperienze da scoprire – lo spinge ad invidiare la vita di quegli altri che hanno più vita della sua. Perché l’invidia è sempre invidia della vita felice, della vita piena, quella che a lui – triste e solitario – manca.

È colpevole Antonio - sia chiaro - senza attenuanti e senza appello; ma è anche una vittima di questo tempo, che alimenta il “guardare contro” gli altri piuttosto che “l’agire contro” le ingiustizie, le discriminazioni, la diversità. L’invidia ha preso il posto della lotta, della critica sociale, della ricerca delle opportunità, dell’azione volta al riscatto in nome dei diritti e dell’uguaglianza, e, allora, chi sta meglio d’altri rischia di diventarne bersaglio, provocandolo inconsapevolmente anche solo con un semplice sorriso.

Il sorriso di Stefano Leo, ignaro runner che in un freddo mattino di febbraio, percorreva Lungo Po Machiavelli, ha così armato la mano di Said Machaouat, che, su due piedi, l’ha dunque scelto come vittima da immolare, perché quell’accenno di felicità che aveva dipinto in viso rappresentava un oltraggio al proprio malessere, quell’irraggiungibile che a lui continuava ad essere negato (L’invidia della felicità del 13 aprile 2019).

Il sorriso di due giovani innamorati che avevano appena iniziato la loro vita insieme, ha armato quella di Antonio, convinto che, privandoli di tutte le promesse che avevano, avrebbe pareggiato i conti con un destino che a lui sembrava non promettere nulla.

Invece è proprio ora che, davvero, il nulla l’attende, se la giustizia terrena farà il suo corso.

La legge non cuce col fil di ferro le palpebre degli invidiosi – come nel Purgatorio dantesco - affinché restino chiusi quegli occhi che hanno guardato malevolmente il prossimo.
La legge punisce gli assassini.
Perlopiù.
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