martedì, 03 giugno 2025

24 ottobre 2020

Questione di buon senso

Autore: Ester Annetta
Ieri per Daniel è stato il primo giorno di scuola. In presenza, s’intende, in classe insieme alla metà dei suoi compagni cui non toccava il turno di didattica a distanza.

Lui il virus se l’era preso a settembre, poco prima dell’avvio dell’anno scolastico, e tra tempi di sfogo dell’infezione, quarantena, attesa del verdetto del doppio tampone, è stato costretto a seguire attraverso il monitor del suo pc o lo schermo del telefonino l’andamento claudicante della nuova didattica.

Oltre la febbre, il mal di pancia ed un diffuso dolore alle membra, Daniel non ha patito gli accessi più aggressivi della malattia: a diciassette anni le sue difese immunitarie hanno operato con grande efficienza, scongiurando le complicanze maggiori.

È ancora pallido, dimagrito, debilitato; ma non ne poteva più di starsene chiuso in casa, relegato nella sua stanza come un carcerato, a distanza anche dai suoi “congiunti-conviventi”.

Il suo ritorno è una valida occasione per approntare un dibattito sull’attuale situazione epidemiologica e sulle misure appena varate dall’ultimo DPCM del 18 ottobre scorso.

Quale modo migliore per attuare in concreto la trattazione di quella nuova disciplina – Cittadinanza e Costituzione – che proprio a partire da questo anno scolastico è divenuta materia d’insegnamento!

Pochi, in classe, a dire il vero, sono a conoscenza dei nuovi provvedimenti, e non perché siano stati adottati – come ormai di consueto – in sedute notturne, sottratte perciò allo spazio del loro impegno attentivo, ma perché in fondo sono abituati a recepire solo quelle condotte che vengono loro richieste in maniera espressa e puntuale, filtrate attraverso volantini appesi all’ingresso di negozi e palestre, raccomandazioni del genitore, circolari scolastiche.

Tuttavia risparmio loro la consueta ramanzina sull’importanza di seguire i notiziari o leggere i giornali (almeno quelli online!) anziché seguire le scempiaggini dei loro youtuber: il freno forse in parte è posto dal pensiero che potrebbe averci visto lungo il nostro premier nell’affidare al “carisma” di certi noti influencer il compito di veicolare messaggi che invitano alla prudenza ed al rispetto delle regole…

Domando quindi ai ragazzi cosa ne pensino del coprifuoco che alcune regioni hanno già deciso di adottare.

Partiamo dal significato originario del termine, che nel medioevo indicava l’usanza che, a una determinata ora della sera, imponeva agli abitanti di una città di coprire il fuoco con la cenere per evitare incendi e che veniva annunciato con il rintocco di campane.
L’invito è poi a cercare sul dizionario il significato corrente del termine: la possibilità di poter effettuare la ricerca online utilizzando i propri telefonici e un’occasione imperdibile per poter anche controllare notifiche di social o messaggi ricevuti da fidanzati/e, amici, perfino madri (che pare sovente dimentichino che i figli si trovino a scuola e non al bar!).

La definizione che fornisce il vocabolario Treccani è la seguente: “Coprifuoco=Divieto straordinario di uscire durante le ore serali e notturne imposto dall’autorità per motivi di ordine pubblico, in situazioni di emergenza”.

È evidente allora che, tale descrizione mal si adatta formula impiegata nel nuovo DPCM che, in maniera più temperata rispetto al drastico “confinement” (il confinamento notturno imposto in Francia dal presidente Macron) e senza usare esplicitamente il termine “coprifuoco” che più si addice ad un lessico militare e ad un contesto di guerra, prevede che possa essere disposta ( “da chi” non è più precisato, dopo che la formula prevista nell’originaria bozza del decreto, ove tale compito venia affidato ai sindaci ha scatenato aspre polemiche) la chiusura al pubblico, dopo le ore 21.00, di strade o piazze nei centri urbani, dove si possono creare situazioni di assembramento, fatta salva la possibilità di accesso e deflusso, agli esercizi commerciali legittimamente aperti e alle abitazioni private.

Ma non è questo il tema. Interessa più sapere se la loro generazione, cui questa drammatica vicenda sta richiedendo il sacrificio maggiore – la distanza, lo svilimento delle relazioni, il divieto di abbracci e pacche gioiose sulle spalle accompagnate dal rituale “bella fratè” - riconosca l’efficacia degli interventi adottati.

È proprio Daniel a rispondere per primo, sostenendo con vigore che si tratta di soluzioni inutili di cui saranno proprio i più giovani a pagare le spese: “Se si mette il coprifuoco dopo le 21, quelli che si vogliono incontrare anticipano l’appuntamento e si assembrano lo stesso! Perché non pensano invece di fare le cose seriamente, per esempio con gli autobus, che continuano a circolare strapieni di gente? Quelli non sono assembrati?”

È una logica elementare e schiacciante, quella che, in fondo, condividiamo tutti.

Ci si preoccupa di evitare un nuovo lockdown per il timore delle conseguenze che avrebbe sull’economia; si criticano gli interventi troppo pesanti del Governo ma poi quando questi affida alle istituzioni locali la delega a decidere per il proprio territorio lo si accusa d’aver adottato la politica dello scarica barile; si tende a trovare soluzioni che sembrano partire da prospettive sbagliate in cui si mira a contenere le conseguenze piuttosto che agire sulle cause.

Allora il dubbio che le nuove strategie messe in campo non funzionino sorge davvero.

Lo si è visto la scorsa primavera, quando, solo attraverso una drastica serrata, i contagi sono stati realmente contenuti. La temiamo, la scongiuriamo, eppure siamo tutti pienamente consapevoli che, finché non esisterà un vaccino, la sola cura possa ancora una volta essere quella della distanza, dell’isolamento, del silenzio di strade deserte.

E allora così sia! Lo dobbiamo ai tanti medici ed infermieri che abbiamo visto crollare sfiniti accanto alla tastiera di un computer o marchiati dalle abrasioni causate da mascherine indossate per troppo tempo; lo dobbiamo a quelle bare anonime portate in tragica processione dai camion; lo dobbiamo a chi ha perso affetti, a chi ha perso il lavoro, a chi non potrà vedere la fine di quest’incubo; lo dobbiamo a noi stessi, al rispetto che reciprocamente dobbiamo portarci e che comporta le necessità di riconoscere i nostri limiti, di restare umili, perché il nemico che ci fronteggia non è ancora vinto e, paradossalmente, potremo avere la meglio solo se “restiamo immobili”, chiusi nelle nostre piccole cerchie, senza tentativi d’evasione.

Lo dobbiamo a Daniel e a tutti i nostri ragazzi.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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