Dura ormai da otto anni la sanguinosa guerra civile in Siria; i morti sono già stati 600.000 e più di 7milioni gli sfollati.
L’eco degli orrori di quella guerra arriva anche nel nostro occidente, con intensità a tratti più o meno maggiore: ascoltiamo i notiziari, guardiamo le immagini di fughe e devastazioni, assistiamo alla rovina di luoghi un tempo pieni di vita e di bellezza, partecipando, sì, alla pena di quel popolo martoriato, ma lasciando, tuttavia, che la reale distanza chilometrica di quella terra fornisca un alibi alla nostra impotenza.
Finché non ci capiti un racconto che, come uno strale, ci trafigga, squarciando l’indifferenza e schiacciandoci sotto il peso di una responsabilità che è di tutti, di ogni appartenente a quel “genere” che, dimenticando di essere “umano”, si macchia di nefandezze ed empietà.
I nomi, i volti, le immagini diventano allora simboli, destinati a evocare - ogni volta che siano richiamati – ricordi di dolore o gesti di speranza.
Piccoli martiri o piccoli eroi, cui non saranno mai dedicati paragrafi nei libri di storia, per un tempo indefinito diventano, allora, icone, sprone, spine, indici puntati contro le nostre coscienze.
Iman è uno di quei nomi-simbolo, aggiuntosi da ultimo ai tanti che il fratricidio siriano ormai non conta più.
Era una bimba profuga siriana di appena un anno e mezzo; viveva in un alloggio di fortuna vicino ad Aleppo, con la sua famiglia. È morta a causa di problemi respiratori causatile dal freddo, tra le braccia del padre, che ha tentato di tenerla al caldo mettendole addosso tutto quello che aveva e percorrendo a piedi, in mezzo al gelo, la strada fino al più vicino ospedale, a due ore di cammino.
La foto di Iman, un primissimo piano che inquadra il suo piccolo viso scavato e i grandi occhi neri stanchi e tristi è un pugno dello stomaco, di quelli che lasciano senza fiato e senza parole.
Allo stesso modo di altre immagini che, pure in questi giorni, sono diventate virali.
Stavolta non si tratta, però, di immagini di disperazione. Almeno in apparenza.
Una breve sequenza video ritrae una bimba che gioca con il suo papà, abbandonandosi ad una risata piena, squillante, che potrebbe essere anche contagiosa se non fosse per la crudele realtà che vuole dissimulare.
Si chiama “il gioco delle risate” quello che Selva, bimba siriana di 4 anni, sta facendo in braccio al suo papà. L’ha inventato proprio lui ed è molto semplice: ogni volta che, in sottofondo, fuori dalla casa dove sono ospiti di amici, si sente un’esplosione, il papà domanda: “aereo o bomba?”. La bimba risponde “bomba!” e scoppia a ridere divertita.
L’accostamento di questa immagine a quella di Benigni ne “La vita è bella” è immediato: anche questo papà si è inventato un gioco per proteggere la sua bimba, per tenere lontano dalla sua percezione l’orrore di quella guerra che li ha costretti ad abbandonare la loro casa e a chiedere ospitalità altrove, rinunciando a tutto, perdendo tutto.
E funziona. Perché sul viso di Selva non traspare alcuna paura mentre fuori continuano a susseguirsi le esplosioni. E’ divertita ed è serena, perché le braccia del suo papà sono il luogo più sicuro che ci sia, il salvagente che la protegge da ogni tempesta, la cintura di sicurezza che la para dagli urti di una realtà che, se fosse in grado di comprendere nella sua spietatezza, sarebbe per lei drammatica.
Il suo papà non vuole che Selva cresca con la paura negli occhi, nelle orecchie e nel cuore. L’avvolge nel suo abbraccio, che cura e protegge, proprio come aveva tentato di fare il papà di Iman, anche se per la sua bambina non ha fatto in tempo ad inventare un gioco che la facesse ridere per sopravvivere, che le insegnasse la speranza.
Siamo capaci di vederlo l’eroismo di questi due padri?
L’uno ha sfidato il freddo e la neve per tentare di salvare la sua bambina, privandosi dei suoi vestiti, perché a lui potevano bastare quel piccolo corpicino stretto al petto e la speranza di poterlo salvare a non fargli sentire la morsa del gelo che gli stringeva gli arti. Poi, però, è stato un unico fulmineo istante quello in cui si è accorto che Iman non respirava più e che un gelo – che stavolta non gli interessava di respingere- era calato sul suo cuore, perso nel dolore.
L’altro è un papà che ha inventato una realtà diversa e positiva in cui tenere al sicuro la sua bambina, tenendo per sé tutta la paura e l’angoscia della realtà vera.
Quando Selva sarà grande, sarà in grado di capire il grande dono che le ha fatto suo padre: le avrà insegnato che una risata può vincere il male e che restare allegri può, dunque, essere un atto eroico e persino rivoluzionario; le avrà insegnato che alcune bugie sono più vere della verità, quando servono ad annientare le azioni di chi vorrebbe renderci vittime dell’odio e della paura; le avrà impedito di conoscere troppo presto il dolore, confezionando per lei una realtà in cui la più grande sicurezza viene dall’amore.
Due padri. Due esempi di resistenza e di resilienza. Due destini diversi.
Lo stesso grande amore per la loro creatura.
La formula più potente per vincere contro qualunque nemico.