10 dicembre 2018

Definizione liti fiscali pendenti e giudicato interno

A cura di Giuseppe Avanzato

L’art. 6 del DL 119/2018 prevede la possibilità per i contribuenti di definire in maniera agevolata le liti pendenti con l’Agenzia delle Entrate beneficiando dello stralcio di sanzioni ed interessi e, in taluni casi, di notevoli sconti con riferimento alle imposte inizialmente dovute.
Nello specifico, la disposizione normativa richiamata statuisce la possibilità di definire in maniera agevolata le controversie tributarie aventi ad oggetto atti impositivi, in cui sia parte l’Agenzia delle Entrate, pendenti in ogni stato e grado di giudizio alla data del 24 ottobre 2018 (data di entrata in vigore del decreto).

Ai fini della definizione in parola il contribuente deve versare un importo pari al valore della controversia calcolato ai sensi dell’art. 12, comma 2, D.lgs. n. 546/1992, in estrema sintesi pari al tributo accertato al netto di interessi e sanzioni.
Il Senato, in sede di conversione del decreto, ha apportato alcune modifiche all’istituto in commento prevedendo, da una parte, una riduzione delle somme che il contribuente dovrà versare ai fini del perfezionamento della definizione e, dall’altra, una specifica disciplina delle ipotesi, invero non poco frequenti, in cui si sia verificata una soccombenza ripartita delle parti del giudizio.

In particolare, con riferimento a tale ultima fattispecie viene espressamente previsto che nel caso in cui all’esito del giudizio di primo o secondo grado vi sia una soccombenza parziale (o comunque ripartita) tra il contribuente e l’Agenzia delle Entrate, il contribuente sia tenuto a versare:
  • per la parte in cui risulta soccombente l’Agenzia, il 40% del valore della controversia in caso di soccombenza in primo grado o il 15% in caso di soccombenza in secondo grado;
  • per la parte in cui risulta soccombente il contribuente l’intero tributo al netto di sanzioni ed interessi.

Cerchiamo di chiarire meglio quanto esposto attraverso una semplice esemplificazione.
Si ipotizzi un giudizio pendente afferente un avviso di accertamento basato su due diversi rilievi:
  • maggiore IRES pari a 100.000 euro;
  • maggiore IRAP pari a 50.000 euro.

Supponiamo che la CTP adita accolga le doglianze del contribuente con riferimento all’IRAP ma confermi la pretesa dell’erario con riferimento all’IRES.
In questo caso laddove il contribuente voglia definire ai sensi dell’art. 6 la controversia in parola sarà tenuto a versare:
  • Il 100% del valore della controversia calcolato con riferimento alla maggiore IRES accertata (ovvero la parte della controversia in cui il contribuente è risultato soccombente);
  • Il 40 % del valore della controversia calcolato con riferimento alla maggiore IRAP accertata (ovvero la parte della controversia in cui il contribuente è risultato vittorioso).

Appare chiaro che attraverso l’adesione all’istituto il contribuente ha ottenuto il seguente risparmio monetario:
  • con riferimento alla maggiore IRES accertata ha beneficiato dello sconto di sanzioni e interessi;
  • con riferimento alla maggiore IRAP oltre a non versare le sanzioni e gli interessi ha ottenuto uno sconto del 60% sulle imposte inizialmente dovute.

Giunge così finalmente ad una soluzione il problema della disciplina dei giudizi il cui esito è intermedio, tema controverso che fino ad oggi era contenuto solo nella relazione illustrativa.
Tuttavia, molti autori si sono chiesti quali siano gli effetti di tale norma su eventuali giudicati interni formatisi in seno alle sentenze.
Si ipotizzi, ad esempio, che nella fattispecie testé esaminata il contribuente appelli la parte della sentenza afferente l’IRES in cui era soccombente ma l’Agenzia delle Entrate non presenti appello incidentale con riferimento alla parte della sentenza che la vedeva soccombente (ovvero quella afferente l’IRAP).

In questo caso si forma il c.d. “giudicato interno” ovvero il passaggio in giudicato di quei capi della sentenza che, a causa del decorso del termine, non sono più contestabili dalla parte che ne ha interesse. In altri termini i capi della sentenza passati in giudicato non potranno più formare oggetto di giudizio da parte del Collegio presso cui pende la causa assumendo così carattere di definitività.
Ebbene, con riferimento a tali fattispecie alcuni autori hanno sostenuto che la quota del maggior tributo accertata contenuta in un capo di sentenza passato in giudicato prima del 24 ottobre 2018 non possa/debba essere definita ai sensi dell’art. 6 perché non più oggetto di alcuna controversia attualmente pendente.
Tuttavia tale orientamento, a parere di chi scrive, non può essere condiviso e ciò per l’assorbente motivo che un’interpretazione rigorosa e attenta dell’art. 6 sembra circoscrivere la non definibilità della controversia solo al caso in cui sia passata in giudicato l’intera sentenza e non singole parti della medesima.

Si ritiene, invero, che l’eventuale formazione di un giudicato interno sia questione afferente meramente il processo per cui sarà interesse del contribuente evidenziare la formazione della medesima innanzi alla corte di merito adita.
Tale circostanza non assume invece alcun rilievo se riferita all’istituto previsto dal citato articolo 6.
Per cui, anche in presenza di giudicati parziali, laddove il contribuente decida di aderire alla definizione delle controversie prevista dal DL 119/2018, non dovrà fare altro che versare gli importi calcolati come nell’esempio proposto nel presente articolo non assumendo, invece, alcun rilievo ai fini dell’istituto l’eventuale formazione del giudicato con riferimento a singole parti della sentenza ma solo per la medesima nella sua interezza.

Quanto testé argomentato trova conferma anche nelle pronunce della Corte di Cassazione.
Infatti, già in occasione del condono fiscale del 2002, gli Ermellini attraverso la Sent. n. 18640 dell’8 luglio 2008 avevano chiaramente statuito che il contribuente non è ammesso ad invocare la disposizione di cui all'art. 310 c.p.c. e l'ultrattività della sentenza di secondo grado resa fra le parti qualora abbia aderito alla definizione delle liti fiscali pendenti, ex art. 16, L. n. 289/2002 la cui efficacia annulla ab origine la pretesa tributaria dedotta in giudizio.

In altri termini, a parere della Suprema Corte, con riferimento al condono del 2002, in tema di effetti dell'estinzione del processo tributario e con riguardo all'efficacia delle sentenze di merito pronunciate nel corso del giudizio, la fattispecie rinviene la sua completa regolamentazione nell'art. 46 del D.lgs. n. 546 del 1992, dettato per i "casi di definizione delle pendenze tributarie previsti dalla legge e in ogni altro caso di cessazione della materia del contendere" e nel correlato art. 16, comma 8, della Legge n. 289 del 2002, in base al quale l'estinzione "viene dichiarata a seguito di comunicazione degli uffici [competenti] attestante la regolarità della domanda di definizione ed il pagamento integrale di quanto dovuto". La declaratoria di estinzione, accertando la intervenuta "definizione" di una pendenza tributaria, importa la caducazione di tutti i provvedimenti resi nel processo relativo - avente ad oggetto "avvisi di accertamento, provvedimenti di irrogazione delle sanzioni e ogni altro atto di imposizione" secondo il comma 3 dell'art. 16 citato - non applicandosi la diversa regola di cui all'art. 310 cod. proc. civ., in quanto il perdurare degli effetti ivi previsto per le predette pronunce contrasterebbe con l'accertata definizione del rapporto oggetto delle stesse, né potendo a tale stregua invocarsi il giudicato interno su un punto della controversia.

Pertanto, alla luce di quanto precede, non potrà che concludersi che la formazione di eventuali giudicati interni non assumerà alcun rilievo giuridico ai fini della definibilità della controversia pendente ai sensi dell’art. 6 del DL 119/2018, in quanto la pendenza della lite richiesta dal comma 1 di tale disposizione ai fini dell’adesione all’istituto potrà venire meno solo in caso di estinzione del processo nei termini più sopra precisati nella sentenza della Corte di Cassazione.
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