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Educazione siberiana

Autore: Ester Annetta
A suo modo, anche se criminale, l’educazione siberiana narrata da scrittore moldavo Nicolai Lilin nell’omonimo libro – poi trasposto cinematograficamente con la regia di Gabriele Salvadores – era comunque improntata a ben precise regole d’onore ed a valori universali, quali lealtà, amicizia, onore.

Sarebbe stato un paragone calzante se, nella vicenda che ci si accinge qui a riportare, fosse stato possibile rinvenire analoghe finalità etiche. E, invece, resta solo il dato sconfortante di un modello educativo che, purtroppo, mantiene soltanto la base tendenzialmente “criminale”, senza aggettivazioni edulcoranti né possibili machiavellismi.

È il pomeriggio di sabato 23 marzo. Al campo sportivo di Mezzano, in provincia di Ravenna, la locale squadra di Pulcini (classe 2013) sta affrontando la coetanea rivale del Cervia. È una partita normale, senza particolare tensione né poste rilevanti da difendere. Ad un minuto dal termine del primo tempo succede però qualcosa di davvero assurdo: uno dei piccoli calciatori titolari accusa un problema con le sue scarpette nuove: sono un po’ grandi e deve perciò fermarsi per poter meglio stringere i lacci. L’allenatore dispone allora un cambio volante, facendo entrare in campo un altro bambino a concludere la prima parte dell’incontro, con l’idea di ripescare il sostituito all’avvio del secondo tempo.

Ma la sostituzione non piace al padre del bambino titolare, che perciò entra in campo e si dirige verso la panchina urlando parole offensive alla direzione del giovane allenatore (22 anni appena) e del suo collaboratore che, invano, cercano di calmarlo sottolineando il turbamento di tutti i bambini in campo alla vista di quella scena. Ma arriva la madre del bambino, che a sua volta rincara la dose. Finisce così che il marito colpisce con una testata l’allenatore facendolo rovinare a terra e continuando quindi a colpirlo con calci, finché non viene bloccato. L’allenatore saggiamente lascia riprendere e concludere la partita; dopodiché si reca in Pronto Soccorso per farsi refertare (gli sono stati riscontrati un dito rotto e varie contusioni), annunciando che sporgerà denuncia.

È solo l’ultimo, ma non si tratta certo di un caso isolato. Ce ne sono tantissimi di genitori invadenti che, in varie forme (c’è infatti il papà-allenatore, il cronometrista, il padre-psicologo, l’ultras…) pretendono di interferire nell’attività sportiva dei propri figli e spesso – sia durante gli allenamenti e ancor più in occasione delle competizioni del fine settimana – si azzuffano tra loro sugli spalti o inveiscono sguaiatamente contro allenatori e arbitri. Convinti di avere in casa futuri campioni mondiali o fenomeni del campo, dimenticano quale sia il senso dello sport, dei valori che veicola e; perdono di vista la concezione che esso è anzitutto disciplina, rendendosi per primi responsabili dell’inquinamento di una missione educativa, nei cui contenuti dovrebbe rientrare anche l’insegnamento del saper perdere, del cogliere opportunità dalla sconfitta, del sapersi rialzare dopo una caduta. Finiscono invece per fornire un opposto e pessimo esempio ai figli, che davanti ad una tale degenerazione del tifo e del modello educativo di riferimento, si ritrovano confusi e speso anche demotivati e mortificati; corrono anzi il rischio di mutuare dai propri genitori il senso distorto della competizione, la rabbia e l’aggressività, perdendo quindi la capacità di gestire la propria emotività e le delusioni di una mancata vittoria.

È perciò frequente che gli allenatori si trovino a dover contrastare le intrusioni di genitori troppo “presenti”, che quasi sfogano le proprie frustrazioni intorno al perimetro dei campi da gioco, caricando i figli della pressione di aspettative a volte troppo alte; e facciano dunque fatica a proteggere un’impalcatura di regole e valori, tra cui, su tutti, il rispetto dell’avversario e dei compagni più deboli.

Non senza ragione sono nate in anni recenti delle vere e proprie scuole per genitori sportivi, con la missione di informare e formare madri e padri di atleti minorenni affinché possano supportarli e accompagnarli in maniera corretta lungo il loro percorso sportivo. Del resto, è spesso proprio il peso del loro “ingombro” a determinare la resa di promettenti giovani atleti.

Un genitore equilibrato e appagato da qualunque risultato sportivo del figlio, è invece colui che partecipa emotivamente alle sue competizioni ma senza condizionarlo o pilotare le sue scelte, trasmettendogli anzi la serenità necessaria ad affrontare qualunque sfida e, soprattutto, lasciandolo libero di scegliere e decidere ciò che gli piace.

Insomma, il modello da imitare dovrebbe essere quello del papà di Jannik Sinner, che con la sua lucidità e compostezza ha senz’altro contribuito alla nascita di un campione dal formidabile autocontrollo, dalla volontà granitica e dall’educazione esemplare!
 © FISCAL FOCUS Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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