23 marzo 2024
Povertà
23 marzo 2024

Figli di un Dio minore

Autore: Ester Annetta
Eli Khamarov, uno scrittore inglese del ‘900, riservato al punto d’aver lasciato trapelare poche notizie di sé, condusse approfondite osservazioni sulla condizione umana e sulle complessità della società, diventando noto per le sue penetranti e stimolanti citazioni su vari aspetti della vita.

Ce n’è una, in particolare, che rimanda ad un’idea di giustizia “fuorviata” o, più semplicemente, di palese iniquità, che se può arrivare a concepirsi in astratto, come ipotesi o paradosso, assume contorni assurdi e grotteschi ove trovi reali riscontri nelle circostanze concrete.

“La povertà è come una punizione per un crimine che uno non ha commesso”.

È un’affermazione forte ed estrema, che tuttavia non di rado si mostra tragicamente vera, come nel caso di specie.

La vicenda è quella di un senza tetto che, accusato e condannato di reati infamanti - violenza sessuale e maltrattamenti – è stato successivamente prosciolto per non aver commesso il fatto. Tuttavia, avendo frattanto scontato ben 458 giorni di detenzione in carcere, avrebbe dovuto percepire un congruo indennizzo quale equa riparazione per ingiusta detenzione, come previsto dalla legge.

L’art. 314 c.p.p. prevede infatti che “chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, ha diritto a un'equa riparazione per la custodia cautelare subita, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave. (…) Lo stesso diritto spetta al prosciolto per qualsiasi causa o al condannato che nel corso del processo sia stato sottoposto a custodia cautelare, quando con decisione irrevocabile risulti accertato che il provvedimento che ha disposto la misura è stato emesso o mantenuto senza che sussistessero le condizioni di applicabilità (…)”.

Il successivo art. 315 determina l’ammontare massimo della suddetta riparazione, che “non può comunque eccedere euro 516.456,90”. Tale somma si raggiunge moltiplicando l’importo attribuito a ciascun giorno di ingiusta detenzione (235,82 euro) per la massima durata della custodia cautelare in carcere (che corrisponde a 6 anni).

Pertanto, a conti fatti, al clochard sarebbero spettati di 107,630 Euro.

Ma la Corte d’Appello di Milano, pronunciatasi sul caso, ha deciso che, giacché la condizione dell’imputato, almeno per il periodo in cui era stato sottoposto alla misura custodiale, “era quella di un uomo che viveva in una situazione di accentuata marginalità socio-economica e di subalternità culturale” nonché “senza affetti e privo di una abitazione stabile”, fosse congruo tagliare del 30% l’indennizzo per la carcerazione patita.

Del resto, l’aver vissuto in una baracca e l’assenza di un’occupazione e di rapporti affettivi di qualsivoglia natura dovevano considerarsi come fattori che avevano certamente inciso molto negativamente sulla qualità della sua esistenza. Dunque, secondo i giudici, tutto ciò concorreva necessariamente a mitigare il patimento naturalmente connesso alla carcerazione. In conclusione, la misura dell’indennizzo è stata ridotta a 75.000 Euro.

A dispetto del principio per cui “la legge è uguale per tutti” ma, prima ancora, di ogni primario e basilare principio di uguaglianza e non discriminazione, la decisione della Corte d’Appello di Milano risulta spaventosamente aberrante.

Fortunatamente è intervenuta la Cassazione a restituire ordine ed equità ad una pronuncia destinata altrimenti a sollevare non poco malcontento e sicure polemiche, tanto più perché proveniente da un organo per sua natura indipendente e imparziale.

Così, con la sentenza n. 9486/2024, la Suprema Corte ha evidenziato che, i criteri adottati dalla Corte d’Appello “legittimano una diversa quantificazione del criterio aritmetico (nel caso di specie con una sensibile riduzione del 30%) a seconda della condizione sociale, di marginalità, piuttosto che di normalità o di privilegio, una situazione quest’ultima che alla luce di questi criteri, dovrebbe conseguentemente avere effetti opposti, di aumento del quantum”.

In sostanza, secondo gli Ermellini, rovesciando questo criterio si sarebbe dovuto concludere che spetti un indennizzo più alto a chi vive nel lusso e può contare su solidi affetti, “per non parlare – scrivono – dell’incomprensibile richiamo, pure utilizzato nell’ordinanza impugnata, alla subalternità culturale”.

Pertanto, costituisce un’ingiusta discriminazione ridurre l’indennizzo per l’ingiusta detenzione al senza fissa dimora, in considerazione dell’assenza di affetti, dell’accentuata marginalità sociale e della “subalternità culturale”, giacché la privazione della libertà è pesante per tutti, e non solo per chi ha la villa con piscina e familiari che lo amano e aspettano la sua liberazione.
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