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Autore: Ester Annetta
Chi è delle mia generazione ricorderà certamente la mitica Govi Import, la ditta che sui ‘giornaletti’ (come allora li chiamavamo) per ragazzi, che si leggevano a quei tempi - l’Intrepido, Il Monello, Diabolik e Topolino – pubblicizzava i suoi incredibili e mirabolanti prodotti.

Si trattava di una sorta di Amazon ante litteram, giacché – su modello di quanto già avveniva negli Stati Uniti – importava e vendeva, esclusivamente per corrispondenza, articoli di vario genere (prodotti elettronici, giocattoli, cosmetici), decantandone esageratamente le qualità e le caratteristiche, alla prova dei fatti non sempre corrispondenti al vero.

Per noi bambini d’allora – convinti persino che davvero esistessero i mitici stivali con le molle di Paperinik -, si trattava di una sorta di ‘venditore di sogni’, giacché Govi offriva anche oggetti straordinari e desiderabilissimi, quasi magici: la macchina fotografica più piccola del mondo, che stava nel palmo di una mano; la penna con radio incorporata; i microfoni direzionali e, soprattutto, la Spy-Pen, che permetteva di vedere attraverso i muri, e gli occhiali a raggi X.

Questi ultimi, in particolare risultavano particolarmente attrattivi per gli adolescenti d’allora, poiché mostravano, nella vignetta che li reclamizzava, il loro eccezionale potere di vedere il corpo delle ragazze attraverso i vestiti che indossavano.

Naturalmente non era vero: si trattava di una semplice montatura di plastica, munita di lenti di cartone con al centro un buco e una piccola piuma che, sfruttando un effetto ottico dovuto alla rifrazione della luce, creavano l’effetto di uno sdoppiamento delle ombre di ciò che si guardava, cosicché sembrava che si vedessero le ossa della mano osservata in controluce o le forme del corpo sotto ai vestiti.

Il ‘lavoro grosso’, insomma, era affidato essenzialmente alla fantasia e, soprattutto, all’ingenuità dei giovani lettori, che solo più tardi, divenuti un po’ più grandi, avrebbero forse osato comprare (di nascosto!) riviste un po’ più esplicite, attraverso cui apprendere i primi reali rudimenti di anatomia (e non solo).

E’ questo il ricordo che mi è tornato in mente nel leggere del caso relativo all’ennesima, nuova app che sta spopolando tra i ragazzi – quelli più giovani, stavolta, di 12-14 anni – e che ripropone in maniera molto più tecnologica e (purtroppo) realistica la ‘magia’ dei nostri datati occhiali a Raggi-X.

Si tratta di Bikinioff, un programma basato sull’intelligenza artificiale, nato dall’evoluzione di una preesistente piattaforma social francese (BeReal) e ormai diffusosi in tutto il modo tramite il canale Telegram.

Come il suo stesso nome lascia intuire, si tratta di una app che, rielaborando immagini vere, partendo preferibilmente da foto in costume o lingerie, le trasforma in nudi falsi ma assolutamente realistici. Il tutto senza che siano poste limitazioni d’età al suo utilizzo e con ‘l’aggravante’ che, dopo il primo impiego (cioè la manipolazione di una sola foto), per poterne proseguire l’utilizzo è necessario pagare una certa cifra per ogni nuova elaborazione, mediante carta di credito, PayPal, criptovalute e Google Pay.

L’AI, insomma, può vestire – come ha dimostrato facendo indossare al Papa un sontuoso piumino bianco – ma può anche svestire.

Solo che, se nel primo caso si può cogliere l’aspetto ‘ironicamente trasgressivo’ d’un tale utilizzo, nel secondo caso la faccenda assume invece risvolti disdicevoli, anche gravi.

E’ difatti accaduto che due alunni di una scuola media di Roma siano stati denunciati ed indagati dalla procura per i minorenni per produzione di materiale pedopornografico, avendo diffuso tramite wathsapp foto ‘denudate’ di alcune loro compagne si scuola.

L’episodio risale ad agosto dello scorso anno ma la notizia è tornata in rilievo giacché solo nei giorni scorsi il GIP di Roma si è pronunciato dichiarando il non luogo a procedere per irrilevanza del fatto e disponendo, dunque, l’archiviazione del caso.

Per il giudice, infatti, è stata ritenuta determinante la circostanza che i due ragazzi fossero troppo giovani e, dunque, non maturi e inconsapevoli nell’utilizzo dell’App. La loro sarebbe stata, dunque, una “impudenza ascrivibile a leggerezza tipicamente giovanile”, considerato anche il rilievo che si tratta di incensurati.

Resto perplessa di fronte alla leggerezza con cui, col consueto criterio del ‘due pesi e due misure’ si consenta, da un lato, di ritenere che dei 14enni siano perfettamente in grado di gestire denaro tramite strumenti di regolamento evidentemente adulti - rispetto alla paghetta consistente in qualche moneta che sarebbe loro spettata in altri tempi -, mentre non sia loro riconosciuta autonomia di giudizio e consapevolezza circa l’uso distorto di strumenti che sono perfettamente a conoscenza di utilizzare in maniera impropria.

In ogni scuola, ad ogni alunno, di ogni età sarà stato assegnato almeno una volta un tema o dei semplici “Pensierini” sul bullismo e sul cyberbullismo; ognuno di loro, più e meglio di noi adulti – a volte – sa cosa siano il body shaming, il cat-callig ed ogni altra dicitura anche non autoctona che identifica una condotta disdicevole o ai limiti della legalità.

Allora ha ragione il Garante dell’Infanzia a sostenere che certe condotte non sono riducibili a semplici bravate e che la vera questione si trova nelle mancanze: di esempio, di conoscenza e di educazione al corretto impiego delle nuove tecnologie prima di tutto da parte degli adulti, che troppo spesso lasciano in mano ai loro figli, senza controllo, ‘giocattoli nuovi’ che sono invece strumenti altamente pericolosi.

L’archiviazione del caso non può certo bastare a cancellare un danno che si sia frattanto determinato: il ‘gioco’ dell’elaborazione virtuale di una immagine diffusa per ‘impudenza giovanile’ può comunque rovinare l’esistenza (reale!) altrui.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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