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La fretta e l’attesa

Autore: Ester Annetta
Il Ministero dell’Istruzione e del Merito, con una nota dei giorni scorsi, ha riferito che la traccia più scelta (il 43,4%) dagli studenti agli esami di Stato è stata quella di attualità, tratta da un articolo di Marco Belpoliti, sull’elogio dell’attesa nell’èra di WhatsApp.

Non si tratta di una sorpresa, in fondo, giacché la sollecitazione a riflettere su un tema che - di fatto e nella realtà concreta, è così distante dai nativi digitali, “veloci” per loro stessa natura, dotati di una straordinaria rapidità di digitazione e di contrazione dei termini ed ignari di un tempo in cui le lettere si vergavano a mano, odoravano d’inchiostro e attendevano una risposta per giorni, se non addirittura per settimane - ha forse rappresentato un giusta sfida, una sostanziosa ‘prova di maturità’ per dimostrare la loro capacità di riflettere sul valore dell’attesa in un presente sempre più avvitato su se stesso dove si è perso il valore del dopo, della dilatazione temporale e, perché no, anche della noia o del suo opposto, la sorpresa.

L’articolo suggeriva una riconsiderazione proprio dell’importanza del ‘tempo sospeso’ che, pur essendo una condizione imprescindibile delle stesse fasi della vita umana - la gestazione, l’adolescenza, l’età adulta –viene annullato dalla pretesa di una immediatezza che ha quasi finito per essere un’imposizione, una necessità altrettanto imprescindibile ingenerata da quella costante competizione sociale che le nuove tecnologie (e soprattutto i social) alimentano a dismisura. L’attesa ha perso, dunque, quella connotazione di ‘piacere’ (espressa dallo scrittore e filosofo tedesco Gotthold Ephraim Lessing con la nota frase “L’attesa del piacere è essa stessa piacere”) che in ogni ritaglio d’esistenza – compreso quel “sabato del villaggio” che prelude alla festa della domenica –per noi generazioni più datate ha invece sempre rappresentato.

Il tempo attuale è invece dominato dall’impazienza, da un’esigenza di subitaneità e simultaneità che rende odioso ogni minimo intervallo temporale ‘vuoto’. Che si tratti dell’attesa di un autobus alla fermata, della fila ad uno sportello o alla cassa del supermercato, persino della serie TV – che si preferisce fagocitare per intero in streaming in un sol giorno, pur di non dover attendere la scansione programmata degli episodi - o di un viaggio che ‘si subisce’ da passeggeri e che non è invece vissuto da conducenti, manca la capacità di dare un senso a quelle pause, di riempirle con pensieri, immaginazione, voli di fantasia o semplicemente con la quiete, finendosi inevitabilmente per colmare ogni interstizio fra un’azione e l’altra con quell’infernale strumento – lo smartphone – che, consentendo una connessione continua e ossessiva con l’altrove, disconnette da se stessi.

Ogni cosa finisce così per essere una sorta di ‘regalo senza incarto’, giacché è proprio l’involucro colorato che avvolge il contenuto a consentire quella sospensione che si pone tra il ‘ricevere’ ed il ‘sorprendersi’ che è l’essenza del piacere dell’attesa.

Sono in fondo, queste, considerazioni ovvie, perlopiù scontate, al limite della banale retorica; eppure, mi sarebbe piaciuto poter leggere qualcuna delle argomentazioni che i ‘maturati’ di questa tornata d’esame hanno addotto.

Ne ho letto tuttavia una che mi ha colpito molto, proprio perché si discosta da considerazioni ricorrenti sul tema e che, viceversa, ha messo in luce un collegamento inedito e ben più profondo del valore dell’esistenza in rapporto all’attesa.

L’autrice è una studentessa diciottenne del torinese, che la sua prova d’esame l’ha svolta con una valenza d’altra portata, pochi giorni dopo la morte del suo fidanzato, 22enne, a causa di un incidente stradale: “Eravamo mano nella mano, quando una Bmw a folle velocità, guidata da un ubriaco, me l’ha strappato via. I nostri sogni sono stati cancellati e io adesso sono qui senza di lui”. La fretta su cui la traccia del tema invitava a riflettere, l’ha letta così la ragazza: “Parla di me, di noi, di quella sera. Non sappiamo più aspettare, tutto è diventato istantaneo, abbiamo sempre fretta, mandiamo un messaggio con il cellulare e pretendiamo subito una risposta. Ecco, la fretta. Quella sera avevo fretta. Fretta di stare con lui, fretta di dirgli quanto gli volevo bene. Eravamo a casa di mio nonno per festeggiare il primo compleanno di un nipotino. Ma abbiamo salutato tutti e siamo usciti. Avevo fretta di abbracciarlo. Di dargli un bacio (…). Con Mattia correvamo solo con i pensieri, quelli sì che viaggiano veloci, erano tutti proiettati a un futuro insieme. Chi guidava quella macchina invece non aveva fretta; tornava a casa dopo una serata passata a bere con gli amici. Correva e basta. Ci ha travolto, avrà visto quello che ha causato nello specchietto retrovisore ma ha continuato la sua folle corsa”.

Mi domando ancora una volta perché spesso, per giungere a certe prese di coscienza, davvero mature e responsabili, si renda inevitabilmente necessario passare attraverso una tragedia.

Un tema svolto cristallizza il pensiero (talvolta ‘forzato’) del momento, ma poi finisce in un anonimo archivio, confuso tra migliaia d’altri pensieri dal valore di un istantaneo e strumentale esercizio di stile.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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