In occasione di precedenti interventi non abbiamo mai nascosto la sensibilità del nostro Quotidiano rispetto al tema della
neutralità dell’Imposta sul Valore Aggiunto, pertanto ci è gradita l’occasione di tornare sull’argomento a seguito della pubblicazione della
Sentenza n. 25896 emessa lo scorso 28 gennaio 2020 dalla Sezione V Civile della Suprema Corte di Cassazione, depositata in cancelleria (solo) lo scorso 16 novembre.
Come di consueto, non entreremo nel merito dello specifico contesto in cui si è calato il giudizio espresso dai Giudici della Suprema Corte, se non il minimo necessario per comprenderne correttamente il senso e la portata, mentre cercheremo di trarne, e commentarne, principi generali che possano trovare applicazione per la generalità di Contribuenti (e relativi Consulenti).
Il contesto– La vicenda della quale sono stati interessati i Giudici di “Piazza Cavour” si riferisce ad un omesso versamento Iva relativo al periodo d’imposta 1996 e corrispondente all’importo dell’imposta esposta in fatture regolarmente emesse e registrate, ma che non sono mai state riscosse. Nello specifico il cessionario/committente è stato assoggettato ad una procedura concorsuale che, dopo circa 10 anni, si è chiusa per insufficienza di attivo.
Il Contribuente (cedente/prestatore) non ha mai emesso le note di variazione
ex art. 26 c. 2 DPR 633/72.
Il Curatore, come sembra evincersi dalla sentenza, ha autonomamente effettuato una variazione dell’importo dell’Iva all’interno delle scritture contabili e dei dichiarativi della procedura, portando “a debito della procedura” proprio l’Iva a suo tempo detratta dalla fallita “in bonis” e mai corrisposta ai propri fornitori.
Le norme - Il comportamento “virtuoso” adottato dalla procedura trova la sua fonte negli artt. 184 e 185 della Direttiva 2006/112/CE (disposizioni peraltro speculari all’art. 20 c. 1 lett b della Direttiva 77/388/CE vigente al momento dei fatti).
Nella sacrosanta considerazione che la base imponibile dell’IVA è necessariamente ragguagliata al corrispettivo realmente ricevuto, come espressamente previsto dall’art. 90 della Direttiva 2006/112/CE (nonché art. 11 parte c della Direttiva 77/288/CE) è di tutta evidenza come l’Amministrazione Finanziaria di qualsivoglia Stato membro non possa riscuotere a titolo d’imposta un importo maggiore rispetto a quello riscosso dal soggetto passivo!
Se è vero che il comma 2 dell’art. 26 del DPR 633/72 consente (e ci mancherebbe il contrario) di procedere ad una variazione dell’IVA dovuta corrispondente all’importo non riscosso, ciò che la Suprema Corte mette in evidenza è che “
In realtà, quanto alle procedure concorsuali, alla luce della giurisprudenza unionale l’applicabilità dell’art. 26 del DPR 633/72 non necessita della certezza dell’irrecuperabilità derivante dall’infruttuosità della procedura.”
Sempre gli Ermellini ricordano come la Corte di Giustizia UE, nella causa Di Maura
C-246/16 di cui alla sentenza del 27 novembre 2017, abbia stabilito come “
uno Stato membro non può subordinare la riduzione della base imponibile dell’iva all’infruttuosità di una procedura concorsuale qualora una tale procedura possa durare più di dieci anni”. Ne consegue che, affinché un Contribuente, originariamente inciso da un’imposta esposta in fattura e come tale da versare all’erario, possa avvalersi del proprio
diritto alla riduzione della base imponibile, “
è sufficiente che il soggetto passivo evidenzi l’esistenza di una probabilità ragionevole che il debito non sia saldato, anche a rischio che la base imponibile sia rivalutata al rialzo in ipotesi in cui il pagamento avvenga comunque (punto 27 sentenza CGUE C-246)”.
Alla luce di quanto sopra esposto non è peregrino sostenere come la nota di variazione ex art. 26 c. 2 DPR 633/72 possa essere validamente emessa ben prima della conclusione della procedura concorsuale stessa, come peraltro venne previsto dal “fu comma 4” del medesimo articolo 26, comma che è rimasto in vigore per il solo anno 2016, ma con effetto postergato alle sole procedure concorsuali attivate successivamente al 31 dicembre 2016, e che è stato successivamente abrogato dalla Legge di Bilancio per l’anno 2017, prima che potesse dispiegare qualsivoglia effetto concreto.
Il principio- Estremamente ricca di argomentazioni è la sentenza della Suprema Corte oggi in commento, alla cui lettura rinviamo per apprezzarne appieno il senso e la portata.
Ciò che preme sottolineare in questa sede è il principio che è stato statuito: “
In tema di IVA, è illegittima la pretesa del fisco di ottenere l’imposta dal cedente o dal prestatore che non abbia fatto ricorso al meccanismo previsto dall’art. 26 del DPR 633/72 per mancato pagamento a causa di procedure concorsuali rimaste infruttuose, qualora questo meccanismo sia stato utilizzato dal cessionario o committente, e sia stato eliminato in tempo utile il rischio di perdita di gettito per l’erario”.
La Suprema Corte ha riconosciuto che
decisivoè stato il comportamento del Curatore che ha annotato la variazione “a debito” dell’iva illegittimamente detratta incorporata nelle fatture di acquisto non pagate dalla fallita
“in bonis”. Questa annotazione supera la necessità di emettere una nota di variazione, da parte del cedente/prestatore, a norma del comma 2 dell’art. 26 e nel contempo lo autorizza ad effettuare una analoga annotazione, ma “a credito”, nelle proprie scritture contabili, così da poterla recepire anche nel relativo dichiarativo fiscale e concretizzare l’effettivo recupero delle risorse finanziarie rappresentate dall’Iva non riscossa. Di più, anche se il fornitore non dovesse effettuare una analoga annotazione “a credito”, avrebbe in ogni caso titolo per recuperare l’imposta non riscossa perché si tratta di
“due facce di una stessa operazione economica, che devono essere valutate in modo coerente”. (CGUE in causa
C-396/16, cit., punto 35).
Indubbiamente suggestiva è l’impostazione che emerge dalla lettura di questa sentenza che fa proprie le argomentazioni espresse anche dalla CGUE in tema di una palese discriminazione sul versante della concorrenza commerciale ai danni degli imprenditori italiani che sono costretti ad aspettare la conclusione delle “annose” procedure concorsuali per poter rientrare dell’iva versata all’erario, al contrario di quanto avviene in altri Stati membri.
Anche alla luce di questa ennesima presa di posizione riteniamo sempre più imperativo che il Legislatore voglia, finalmente, recepire il “famoso comma 4” dell’art. 26 che, come ricordato, ha visto la luce per un breve momento con la Legge di Bilancio 2016 e che ha cercato, senza successo, di tornare tra noi con il “Decreto Agosto”: è di tutta evidenza come l’anomalia tipicamente italiana che differisce il recupero dell’Iva non riscossa solo al termine della procedura concorsuale è sempre più soggetta a prestare il fianco alle critiche della giurisprudenza comunitaria e nazionale.