1 febbraio 2020

Errore “manifesto”

Autore: Ester Annetta
Che la morte sia sinonimo di pace eterna è un luogo comune che, in genere, vale solo per il povero trapassato.
La giurisprudenza è difatti ricca, all’opposto, di pronunce che riguardano liti insorte tra parenti che, dimenticando ogni legame affettivo, all’indomani del decesso del loro congiunto si trasformano in nemici giurati, dandosi battaglia per contendersi l’eredità.

È però curioso che la lite possa sorgere non tanto per questioni direttamente connesse all’an o al quantum del lascito ereditario quanto, piuttosto, per vicende che solo indirettamente si prefiggono di realizzare un vantaggio economico e, dunque, lascino adito al legittimo dubbio che siano connotabili di pretestuosità.

È il caso di una vicenda su cui è di recente intervenuta la Cassazione con l’ordinanza n. 797/2020 (pubblicata lo scorso 16 gennaio), con la quale è stata negata la pretesa risarcitoria richiesta dalla ex moglie e dalla figlia del de cuius perché i loro nomi non erano stati menzionati nel manifesto funebre del loro congiunto.

La singolarità della vicenda è resa ancor più tale dalla circostanza che – come candidamente ammesso dalle stesse ricorrenti già in sede di giudizio di primo e secondo grado – è proprio dal contestato manifesto funebre che esse sarebbero venute a conoscenza della morte del loro congiunto.
Una tale premessa è già di per sé indice, evidentemente, dell’assenza di rapporti tra le parti, alla luce di che la pretesa risarcitoria vantata dalla ex moglie e dalla figlia del defunto per lo “sgarbo” subito appare ancor più pretestuosa.

Ma v’è dell’altro: oltre che sull’omissione dei loro nomi sul manifesto funebre, le due ricorrenti hanno basato la loro richiesta di risarcimento sulla circostanza che, sullo stesso manifesto, la nuova compagna del defunto era stata erroneamente identificata come sua moglie senza esserlo, visto che il de cuius era separato e non divorziato.

Tuttavia, tanto il Tribunale che la Corte d’Appello di Salerno avevano già rigettato le predette richieste risarcitorie e condannato la figlia (poiché la madre, nelle more del giudizio, era venuta a mancare) al pagamento delle spese processuali.
Quest’ultima è dunque ricorsa in Cassazione, appellandosi anzitutto al rilievo costituzionale che va riconosciuto al diritto al nome, lamentando, conseguentemente, che i precedenti giudici non avessero dato sufficiente rilievo (senza peraltro fornire alcuna motivazione):
  • al possesso di stato di madre e figlia (per possesso di stato si intende la situazione di fatto che faccia ritenere l'esistenza di un rapporto di parentela tra le parti, secondo quanto indicato dagli artt. 236 e 237 c.c.; quest’ultimo in particolare precisa che “Il possesso di stato risulta da una serie di fatti che nel loro complesso valgano a dimostrare le relazioni di filiazione e di parentela fra una persona e la famiglia a cui essa pretende di appartenere”);
  • al fatto che la compagna del padre si fosse fregiata del titolo di moglie, quando in realtà non lo era, ledendo di conseguenza il diritto al nome della vera moglie, con conseguente diritto al risarcimento del danno.

La Cassazione, con la citata ordinanza 797/2020, ha rigettato il ricorso della figlia - in proprio e nella qualità di erede della defunta madre - motivando, in particolare in relazione ai due punti sopra esposti, che la sentenza d’appello impugnata “con un accertamento in fatto non più discutibile in questa sede, ha ritenuto che il manifesto funebre non potesse, di per sé solo, ledere lo status di moglie e di figlia del defunto in capo alle attrici; i motivi insistono nel sostenere la lesione del diritto al nome ed il conseguente diritto al risarcimento del danno, ma nulla dicono in ordine all'effettivo pregiudizio subito e non dimostrano in alcun modo quale danno dovrebbe essere loro risarcito".

In altri termini, ammesso e non concesso che vi sia stata una lesione del diritto al nome, qual è il pregiudizio che ne è conseguito? E, ancor prima, qual è il danno che dovrebbe essere risarcito?

Insomma, in maniera garbata e diplomatica la Cassazione ha bacchettato la ricorrente, sottolineando la pretestuosità della sua richiesta.
E, in finale, è stata anche benevola, visto che ha compensato integralmente le spese del giudizio di Cassazione anziché porre anche quelle a suo carico, come già accaduto nei precedenti gradi di giudizio.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata
Iscriviti alla newsletter
Fiscal Focus Today

Rimani aggiornato!

Iscriviti gratuitamente alla nostra newsletter, e ricevi quotidianamente le notizie che la redazione ha preparato per te.

Per favore, inserisci un indirizzo email valido
Per proseguire è necessario accettare la privacy policy