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Foreign fighter e mercenari

Autore: Ester Annetta
Si chiamavano Edy Ongaro, Benjamin Giorgio Galli, Elia Putzolu ed i loro nomi sarebbero probabilmente rimasti ignoti – anzi, segreti – se non fossero morti.

L’anonimato è difatti una delle prime regole che, per intuibili ragioni di sicurezza, viene richiesta a chi sceglie di diventare un combattente in un Paese non suo.

Si definiscono Foreign fighters – letteralmente “combattenti stranieri” – e, per ironia della sorte, diventano visibili solo quando non ci sono più.

È ciò che è accaduto a quegli uomini, nostri connazionali, cittadini italiani.

Tutti e tre sono morti in guerra, una guerra non propria, in cui non erano nemmeno schierati dalla stessa parte.

Edy - nome di battaglia «Bozambo» - il più anziano (46 anni) ed Elia (27 anni) combattevano difatti con i russi; Benjamin aveva invece scelto di sposare la causa ucraina.

Il primo è morto in Donbass poco dopo l’inizio ufficiale delle ostilità, a marzo. Nel dare la notizia della sua morte, i canali filorussi l’hanno trattato da eroe, riferendo che «si trovava in trincea con altri soldati quando è caduta una bomba a mano lanciata dal nemico. Edy si è gettato sull’ordigno facendo una barriera con il suo corpo. Si è immolato eroicamente per salvare la vita ai suoi compagni».

Dal fronte ucraino è stato invece descritto come un “criminale” il cui nome figurava nell’elenco dei nemici dell’Ucraina pubblicato da “Myrotvorets” - sito internet curato dallo SBU, il Servizio di sicurezza ucraino, affiliato al ministero dell’Interno di Kiev - e si sarebbe “autodistrutto” per “manipolazione negligente di una bomba a mano”.

Benjamin è morto a settembre, a sud di Kharkiv. Cittadino italo-olandese, viveva in Ucraina già dalla primavera scorsa e si era unito alla prima Legione Internazionale di difesa poco dopo lo scoppio della guerra. Ad ucciderlo sarebbe stata l’esplosione di una bomba a grappolo.

Lavorava come tornitore e, nel tempo libero, coltivava la passione per il soft air. I genitori hanno raccontato della sua ferma convinzione di voler partecipare al conflitto, non per diventare un eroe, ma per proteggere le persone, soprattutto le donne e i bambini. “Devo partire – aveva detto - perché là i russi stanno commettendo una grave ingiustizia”.

L’ultimo combattente caduto è Elia, morto il mese scorso. Dalla Toscana, dove viveva con la madre e il suo compagno, si era trasferito in Donbass nel 2019 per lavorare nella ditta di legnami del padre di un suo amico. Aveva abbracciato la causa indipendentista e si era schierato in difesa delle repubbliche autoproclamate, sottoponendosi pertanto ad addestramento volontario nelle milizie russe. Dai suoi ricordi di bambino - e forse da questi influenzato – aveva recuperato i racconti della nonna materna (tedesca, di madre estone e padre crimeano), restando affascinato dalla storia dell’Unione sovietica.

È stato ucciso da un colpo d’artiglieria, e solo compiendo un’incursione i suoi compagni hanno potuto recuperare il suo corpo per renderlo alla famiglia.

Ognuna di queste vittime aveva i propri, insondabili, motivi per scegliere di aderire ad una causa slegata dalla propria terra, dalle proprie origini, dal proprio popolo: fanatismo, amore per la guerra, forte senso d’umanità. Ciò che è certo è che non sono i soli.

Secondo i servizi di Intelligence e Antiterrorismo, sarebbero circa venti i nostri connazionali combattenti in Ucraina, da una parte e dall'altra dei due schieramenti.

E lo stesso vale anche per altri conflitti, in Iran soprattutto.

Al di là delle ragioni che possono spingere a scelte di tal fatta, conviene allora analizzare quali norme – nel nostro Paese – soccorrono a disciplinare il fenomeno e se ed entro quali limiti possa considerarsi lecito.

C’è da fare anzitutto una distinzione, per scongiurare l’equivoco che Foreign fighter e mercenari siano considerati allo stesso modo.

Nei primi si identificano coloro che si recano all'estero per partecipare ad un conflitto armato, sia internazionale che non internazionale, spontaneamente e senza alcun compenso, spinti da motivi ideologici, politici o religiosi.

Viceversa i mercenari si arruolano negli eserciti stranieri unicamente per profitto personale, potendosi per tale intendere non solo un guadagno in denaro ma l’ottenimento di qualsiasi altra utilità (per esempio la concessione della cittadinanza o di un permesso di soggiorno).

Ma sia l’una che l’altra fattispecie per il nostro ordinamento costituiscono reato.

Secondo il nostro codice penale, infatti, un cittadino italiano non può, senza autorizzazione del Governo, scegliere liberamente di entrare in un esercito straniero né può offrirsi volontario, anche senza compenso, per partecipare ad un conflitto armato combattuto all'estero. È perciò illegale arruolarsi tanto in un altro esercito regolare che in un’altra formazione combattente diversa dalle Forze Armate italiane.

La violazione di tali precetti è collocata nel Titolo I - Delitti contro la personalità dello Stato. Nello specifico, l'art. 244 comma 1 c.p. punisce con la reclusione da 6 a 18 anni chi, senza l'approvazione del Governo, fa arruolamenti o compie altri atti ostili contro uno Stato estero, in modo da esporre lo Stato italiano al pericolo di una guerra; se la guerra avviene, è punito con l'ergastolo.”

Il comma 2 commina la reclusione da 3 a 12 anni “Qualora gli atti ostili siano tali da turbare soltanto le relazioni con un Governo estero, ovvero da esporre lo Stato italiano o i suoi cittadini, ovunque residenti, al pericolo di rappresaglie o di ritorsioni;” la reclusione passa da 5 a 15 anni “Se segue la rottura delle relazioni diplomatiche, o se avvengono le rappresaglie o le ritorsioni”.

Vi sono poi pene anche per chi fa opera di arruolamento: l'art. 288 c.p. punisce con la reclusione da 4 a 15 anni “Chiunque nel territorio dello Stato e senza approvazione del Governo arruola o arma cittadini, perché militino al servizio o a favore dello straniero”.

I mercenari, invece, ossia coloro che accettino di partecipare ad un conflitto armato dietro retribuzione, soggiacciono alla normativa riposta nella legge n. 210/1995 di Ratifica ed esecuzione della convenzione internazionale contro il reclutamento, l'utilizzazione, il finanziamento e l'istruzione di mercenari, adottata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York il 4 dicembre 1989, che, all’art. 3, stabilisce che “chiunque, avendo ricevuto un corrispettivo economico o altre utilità, oppure avendone accettato solamente la promessa, combatte in un conflitto armato nel territorio estero, di cui non sia né cittadino né stabilmente residente, senza far parte delle forze armate di una delle parti del conflitto o essere inviato in missione ufficiale quale appartenente alle forze armate di uno Stato estraneo al conflitto, è punito, se il fatto non costituisce più grave reato, con la reclusione da due a sette anni.”

Tuttavia da tale norma si ricava, argomentando “a contrario”, che il reato non è configurabile a carico di coloro che combattono per uno Stato in cui vivono pur non essendone cittadini, con ciò riconoscendosi tutela al sentimento di appartenenza che l’”ospite” prova nei confronti del Paese in cui abita stabilmente.

Pare, insomma, che empatia e sentimento facciano la differenza tra un mercenario e un combattente straniero pagato.

Conviene allora sperare che i nostri tre connazionali combattenti nel conflitto russo-ucraino siano morti per la difesa di una terra che, anche se non propria, abbiano considerato vicina.

Serve per conservarne integra e giusta la loro memoria.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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