3 aprile 2024

Il precariato in Italia: vivere con 800 euro al mese

Secondo uno studio della Cgil, la precarietà tocca quasi 11 milioni di persone che non riescono ad uscire dal vortice di contratti part-time e intermittenti

Autore: Germano Longo
Sono quasi vent’anni che in Italia si parla di “precariato”, la poco invidiabile situazione di chi ha un lavoro senza certezze, discontinuo, a tempo, stagionale, somministrato e comunque spesso sottopagato. Nel nostro Paese, secondo un recente studio della Cgil realizzato per accompagnare una campagna di sensibilizzazione prossima a partire e affidato all’economista Nicolò Giangrande, i precari sono circa 11 milioni, 10 nel privato e un milione del pubblico.

Il primo dato che emerge dallo studio è l’estrema “discontinuità lavorativa” di milioni di persone che lavorano per poche ore alla settimana, con qualifiche minime e buste paga striminzite. Per mettere i numeri al posto giusto, 10 milioni di lavoratori italiani del settore privato arrivano a guadagnare 17mila euro all’anno.

Di questi, 5,7 milioni sono dipendenti il cui salario annuale scende ancora toccando i 10.700 euro: tradotti mensilmente, significa riuscire a campare con 800 euro al mese. Mentre fra i dipendenti pubblici, 871mila non superano i 22mila euro all’anno e altri 640mila non vanno oltre i 15mila.

Conseguenze di altri dati, non meno sconfortanti: nel 2022, soltanto il 17,5% dei nuovi contratti superava l’anno di durata, mentre l’82% delle assunzioni era inferiore ai 12 mesi, e addirittura la metà non superava i 90 giorni. Una situazione su cui l’Ocse ha acceso i riflettori valutando la curva dei salari dei Paesi europei in 30 anni, dal 1992 al 2022. Se in Germania e Francia il livello di retribuzione è salito del 23 e del 32%, in Italia ha perso lo 0,9%.

“Nel 2022 il salario medio in Italia si è attestato su 31,5 mila euro lordi annui, un livello nettamente più basso rispetto a quelli tedesco (45,5 mila) e francese (41,7 mila) – aggiunge il sindacato in una nota - a determinare un minore salario medio in Italia concorrono una maggior quota delle professioni non qualificate, l’alta incidenza del part time involontario (57,9%, la più alta di tutta l’Eurozona) e del lavoro a termine (16,9%) con una forte discontinuità lavorativa. In sostanza, benché in Italia si lavori comparativamente di più in termini orari, i salari medi e la loro quota sul Pil sono notevolmente più bassi”.

“Passando dal lordo al netto, nel 2022 circa 5,7 milioni di lavoratrici e lavoratori hanno guadagnato l’equivalente mensile di 850 euro e altri 2 milioni arrivano ad appena 1200. Una situazione che non è affatto migliorata nel 2023, anno in cui l’inflazione ha raggiunto il 5,9% - commenta il segretario confederale della Cgil Christian Ferrari - si è trattato, peraltro, di un’inflazione da profitti contro cui il governo non ha posto alcun argine efficace, assistendo inerte all’impoverimento drammatico di milioni di lavoratori e pensionati. Non solo, non stanziando i fondi necessari a rinnovare i contratti di oltre 3 milioni di lavoratori pubblici, ha dato un pessimo esempio come primo datore di lavoro del Paese, ai datori di lavoro privati”.

Il vero problema italiano è che la precarietà non è facilmente risolvibile, in particolare in un mercato del lavoro ancora poco “liquido” come quello italiano, in cui la precarietà ha delle precise cause strutturali. Il fenomeno può essere interpretato come l’indice dell’andamento economico di un Sistema Paese e nel grado di fiducia dimostrato delle imprese, ovvero la loro prospettiva di crescita: se è basse, la propensione all’assumere nuovi lavoratori scende. Un altro fattore è la pressione fiscale sulle aziende, la più alta d’Europa, che contribuisce a stimolare l’uso di contratti atipici.

Secondo il parere di esperti il “fenomeno” è iniziato da una serie di interventi legislativi che hanno preso piede in Europa a partire dagli anni ‘90. In Italia, molti attribuiscono alla Legge Biagi del 2003 l’introduzione delle prime forme di precariato istituzionalizzato: nelle intenzioni era stata immaginata come una formula di maggiore flessibilità nel granitico mondo del lavoro, con l’introduzione di contratti part-time e atipici che avrebbero dovuto agevolare l’ingresso nel mondo del lavoro. Ma è bastato un decennio per rendersi conto che questi tipi di contratti avevano creato un precedente destinato a dilagare ovunque, fino a formare un vero esercito di precari.
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