Risponde di concorso nella bancarotta per distrazione la moglie del “dominus” del gruppo societario che, quale membro del CDA, ha trascurato gli ordinari obblighi di controllo. È quanto emerge dalla sentenza n. 57736/2017 pubblicata il 28 dicembre dalla Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione.
Gli imputati, moglie e marito, si sono opposti al giudizio di responsabilità per il reato di bancarotta patrimoniale e documentale pronunciato nei loro confronti dalla Corte d’Appello di Reggio Calabria e in precedenza dal Tribunale della stessa città. La Suprema Corte ha respinto i ricorsi presentati dai due coniugi, ritenendo corretto il ragionamento seguito dai giudici di merito.
In particolare, quanto alla moglie, gli Ermellini hanno escluso la decisività della tesi difensiva secondo cui la donna - sebbene membro del CDA della fallita - non aveva mai partecipato in concreto alle decisioni e alle scelte dell'azienda; e d’altro canto non aveva esercitato gli ordinari obblighi di controllo sull'operato dell'amministratore delegato, essendo questi suo marito e, comunque, non era a conoscenza del pagamento eseguito dallo stesso.
Secondo la tesi accusatoria, la moglie, in qualità di componente del CDA, non aveva impedito al marito, amministratore delegato (e “dominus” del gruppo societario), le operazioni dolose, le distrazioni e le falsificazioni delle scritture contabili.
Ebbene, i Giudici di legittimità, decidendo sul ricorso della moglie, pongono l’accento sul suo doppio ruolo. Da un lato, componente del consiglio di amministrazione della fallita – il che comportava l'assunzione di obblighi di controllo e di intervento sull'operato dell'amministratore delegato -, dall’altro, titolare di quote (insieme alla figlia) della società beneficiaria della contestata distrazione.
Per gli Ermellini, la deduzione concernente l’asserita mancanza di dolo è rimasta del tutto sprovvista di riscontro fattuale. Inoltre la ricorrente non ha adeguatamente argomentato circa la ricorrenza dei c.d. “segnali di allarme” (la percezione di elementi dai quali, per il loro contenuto informativo, si desume la rappresentazione del fatto illecito oggetto degli obblighi di vigilanza e controllo, e la conseguente volontà omissiva). Infatti, l'amministratore (con o senza delega) è penalmente responsabile, ex art. 40, comma 2, cod. pen., per la commissione dell'evento che viene a conoscere (anche al di fuori dei prestabiliti mezzi informativi) e che, pur potendo, non provvede ad impedire. Detta responsabilità richiede la dimostrazione, da parte dell'Accusa, della presenza (e della percezione da parte degli imputati) di segnali perspicui e peculiari in relazione all'evento illecito nonché l'accertamento del grado di anormalità di questi sintomi.
Nella giurisprudenza di legittimità è pacifico il principio secondo cui: "in tema di reati societari e fallimentari, gli amministratori - pur a seguito della riforma introdotta con il d.lgs. n. 6 del 2003, che ha modificato l'art. 2392 cod. civ., riducendo gli oneri e le responsabilità degli amministratori senza delega - sono penalmente responsabili, ex art. 40, comma 2, cod. pen., per la commissione degli eventi che vengono a conoscere (anche al di fuori dei prestabiliti mezzi informativi) e che, pur potendo, non provvedono ad impedire; detta responsabilità può derivare dalla dimostrazione della presenza di segnali significativi in relazione all'evento illecito, nonché del grado di anormalità di questi sintomi" (Sez. V, n. 36764/06; v. anche Sez. V, nn. 23838/07 e 3708/12).
E ancora: "L'amministratore di società, che, contravvenendo all'obbligo contenuto nell'art. 2392 cod. civ. di impedire non solo gli atti pregiudizievoli per la società ma anche quelli pregiudizievoli per i soci, i creditori o i terzi, non adempie al suo obbligo di garanzia, concorre, ex art. 40 cpv. cod. pen., per omissione, consistita nella mancata vigilanza e nella mancata attivazione per impedire l'adozione di atti di gestione pregiudizievoli, nei delitti fallimentari commessi da altri amministratori, dal momento che anche gli interessi tutelati dalle norme penali fallimentari sono compresi tra quelli affidati alle sue cure" (Sez. 5, n.. 36595/09, n. 9736/09, 32352/14 e n. 23000/13).
Dall’applicazione di questi principi è scaturito il rigetto del ricorso dell’imputata.
La stessa sorte è toccata al ricorso del marito (al riguardo, la S.C., fra l’altro, ha evidenziato che “il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione sussiste anche nel caso di imprese collegate tra loro, qualora gli atti di disposizione patrimoniale, privi di seria contropartita, siano eseguiti a favore di una società del medesimo gruppo, poiché il collegamento societario ha natura meramente economica e non scalfisce il principio di autonomia della singola persona giuridica”. Nel caso di specie sono stati accordati prestiti, senza alcuna precostituzione di idonee garanzie per la restituzione dell'importo e dei relativi interessi).
La Suprema Corte ha disposto la condanna di entrambi i ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro 2.000,00 ciascuno in favore della Cassa delle Ammende.