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LO SPECCHIO DEL MIO SALOTTO

A cura di Antonio Gigliotti

Lo specchio del mio salotto non è più quello di un tempo. Mi sembra diverso. Eppure è sempre lo stesso. Ricordo di averlo comprato in un negozio di antiquariato tanti anni fa. E’ grande e quadrato. Ha la cornice in rilievo di legno intarsiato. E io da qualche tempo, senza capirne bene il perché, ho smesso di considerarlo un mobile. E’ diventato qualcosa di più. Ogni mattina è impietoso se mi vede passare veloce. Se ne sta lì appeso e immobile. Ci guardiamo senza dirci una parola. Eppure in silenzio sembra che dica il mio nome. Mi chiama. Mi obbliga a guardarmici dentro. Forse per continuare quella pratica di cui già vi ho parlato una volta . Quella del ‘mettersi a nudo’, ricordate? Quell’esercizio doloroso che porta in sé un concetto imprescindibile. Quello di dirsi la verità.
Per il lavoro ho sacrificato tutto: famiglia, affetti, amicizia. Eccola la verità. E ve la racconto perché se ci rifletto non vedo solo la mia vita, rivedo anche la storia di tanti colleghi. Apparentemente sembra un argomento lontano dai temi soliti. Sì, è così. Ma alla fine, come nel volo del boomerang, ritorna proprio alla nostra professione. La mia vita lavorativa, come quella di tanti, può essere raccolta in un album fotografico di migliaia di pagine. Ogni pagina una fotografia. E in ogni fotogramma ci sono io, sempre io, indaffarato, oberato, sommerso così tanto nel lavoro che spesso, troppo spesso ho dimenticato gli affetti più cari.
Mi ricordo la malattia di mio padre e i rimorsi per non essergli stato più vicino, di più di quanto abbia potuto. Mi ricordo quanto era difficile concentrarsi. Quanta violenza nel combattere quel pensiero che tornava sempre a lui, a mio papà. Non potevo permettermi di saltare il lavoro con i convegni e le scadenze incalzanti da rispettare. Mi ricordo i miei due figli piccoli aggrappati alle mie gambe davanti alla porta di casa il lunedì mattina quando partivo. Ricordo la forza che dovevo adoperare per staccarli perché non volevano che partissi. Ricordo che chiudevo la porta alle mie spalle e di nascosto piangevo. Mi ricordo il giorno in cui mio figlio si è sentito male a scuola e io non c’ero. Ancora lontano da casa. Veniva ricoverato d’urgenza all’ospedale mentre io, con il cuore fratturato e la maschera in volto, continuavo nel mio lavoro, ostaggio di un’etica professionale feroce che nel tempo, non ha risparmiato né i miei cari né me.
Come tanti di voi, ho passato la mia vita sui libri, sul lavoro. Ho faticato tanto per arrivare fin qui. Mi sembra di non aver mai avuto scelta. Mi dico che tutti i sacrifici li ho fatti per la mia famiglia. Ma lo specchio impietoso del mio salotto continua a farmi una domanda, sempre la stessa: “N’è valsa la pena?”.
Qualcuno può giudicare banali queste riflessioni. Forse con l’avanzare degli anni si finisce per diventare più sentimentali. O forse qualcun altro si riconosce nelle mie parole. A loro dico che non è troppo tardi, che il punto di non ritorno non è ancora superato se si trova il coraggio di guardarsi allo specchio. Gli affetti più cari non basta tenerli in considerazione, vanno vissuti per vederne la bellezza. Altrimenti il nostro destino, come diceva Giorgio Gaber, è quello di diventare delle scorze di uomini, degli involucri, delle scatole vuote. Mai delle persone. Magari dei personaggi affascinanti, simpatici anche… Mai delle persone. Perché se è così, l’affetto non diventerà mai solido, imperturbabile, autentico…rimarrà solo una parola al vento, una farfalla che ti si posa un attimo sulla testa e ti rende tanto più ridicolo quanto maggiore è la sua bellezza.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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