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11 settembre

Autore: Ester Annetta
Non serve nessun’altra specifica, né il dove né l’anno.
L’11 settembre è come un titolo, un’etichetta, che connota senza possibilità d’equivoco quel terribile attentato che, venti anni fa esatti, non cambiò solo il panorama di una città ma – con le sue conseguenze e le sue implicazioni - la storia del mondo intero.

Quel giorno, un manipolo di uomini (che più tardi si sarebbe appreso appartenere ad al-Qaida, organizzazione terroristica islamica destinata da quel momento in poi ad espandere esponenzialmente la sua triste notorietà) si distribuì su quattro aerei, con l’intenzione di dirottarli. Erano le 8.46 del mattino quando il primo si schiantò contro la torre nord del World Trade Center a New York; poco dopo, alle 9.03, un secondo aereo si abbatté contro la torre sud. Ancora quaranta minuti ed un terzo aereo piombò sulla facciata occidentale del Pentagono; l’ultimo, diretto a Washington, cadde alle 10.06 in un campo in Pennsylvania dopo che i passeggeri, ribellatisi ai dirottatori, fecero fallire il loro piano.

A poco meno di due ore dall’impatto entrambe le “Torri Gemelle”, prima l’una e poi l’altra, crollarono; le vie della città furono avvolte in una nube di polvere tossica, talmente grande che l’astronauta della NASA Frank Culbertson la vide dalla Stazione Spaziale Internazionale.

Fu un attacco imprevedibile, una strage inattesa, a danno quasi esclusivamente della popolazione civile: 2.977 persone morirono, 2.753 nella sola New York.

Fu un colpo al cuore della città simbolo degli Stati Uniti, benché la NATO, in base all'articolo 5 del proprio Statuto, ebbe presto a considerarlo un attentato diretto contro tutti i Paesi ad essa appartenenti - Italia compresa - preparandosi, così, a reagire.

Chi c’era, anche a migliaia di chilometri di distanza, a latitudini dove l’ora non coincideva con quella degli impatti, non dimenticherà mai quelle immagini che le edizioni straordinarie dei telegiornali continuavano a riproporre, riprese da altezze e angolazioni diverse.

Non era ancora l’era della diffusione dei telefonini con le telecamere integrate né dei social, e, dunque, non ci furono fiumi di riprese amatoriali né cinici selfie a rimpallare quelle tragiche scene. Eppure tutto fu ugualmente amplificato, lanciato e rilanciato con la stessa dirompenza e la stessa preoccupazione che si sarebbe riservata alla notizia dello scoppio d’una rivoluzione.
E di quella, difatti, in fondo si trattò.

Di certo ognuno ricorda esattamente cosa stesse facendo nel momento in cui vide l’immagine del crollo della prima torre; l’aereo - che sembrava un modellino – che penetrava la seconda, squarciandola; il volo nel vuoto dell’uomo che, come un manichino, si lasciava cadere dalle sue altezze come se avesse scelto di estrarre a testa o croce la maniera in cui morire, dacché era certo che quella fosse ormai la sua sorte. Infine il tremore di quel gigante agonizzante prima di abbattersi al suolo, in un fragore di vetri infranti, pilastri spezzati, muri sgretolati che cancellò per sempre i giganti simbolo di Manhattan, lasciando un cumulo di macerie e una profonda ferita, non solo nel solco scavato in terra ma nell’anima stessa dell’America.

Sarebbe potuta sembrare la sequenza di un film d’azione, la narrazione d’una battaglia leggendaria; e invece era tutto terribilmente vero: le grida, i pianti, le sirene dei pompieri, la folla che correva impazzita per le strade attorno a quello che ormai non c’era più.

Ricordo la prima volta che salii sulla cima di uno di quei giganti gemelli sfidando il mio senso di vertigine, sentendomi rassicurata da quella enorme vetrata che mi lasciava intuire l’altezza, proteggendomi al tempo stesso; molto, molto più giù, la distesa di cubi e parallelepipedi che erano le case, i palazzi, i grattacieli “inferiori”; le strade a scacchiera illuminate da filari di fanali d’auto, e il vento che fischiava roteando attorno all’antenna che, come il pennone d’una nave, svettava sulla cima della torre. Non saprei dire se fosse quella Nord o Sud, era un dettaglio irrilevante, in fondo, dinanzi a tanta magnificenza.

Ci tornai anche una seconda ed una terza volta, l’ultima col maggiore dei miei figli che aveva allora solo tre anni. Non ne ha memoria come del resto l’altro, che nuotava ancora nel mio pancione nel momento in cui guardavo incredula la distruzione di un ricordo.

Un po’ come accadde per la missione sulla Luna, tante storie – vere, false, verosimili – sono fiorite attorno ai dettagli di quel giorno. Dal complotto all’auto-attentato sono stati raccontati particolari e leggende, tornite ipotesi, tessute piste alternative, in una girandola di ricostruzioni in cui si sono volute ad ogni costo trovare ragioni - attuali o lontane - individuare colpevoli e capri espiatori, giustificare sproporzionate reazioni, finendo spesso per trascurare il dramma ed il dolore, offendendo - quasi - le vittime.

I loro nomi - ora incisi sui bordi delle grandi vasche del 9/11 Memorial Museum – hanno continuato ad essere scanditi ogni anno nell’anniversario dell’attentato, seguito ognuno da un silenzio in cui è sembrato di poter udire solo una risposta: “Innocente!”

Oggi, dopo vent’anni, quella cerimonia si ripeterà ancora. Ma non la si consideri una banalità, né un rituale, né uno sterile e dovuto omaggio: si renda invece a quell’appello il suo senso più vero, di atto di umanità, utile a restituire un’identità a tutti coloro che, per chi quel giorno di vent’anni fa non c’era ancora, la storia e le cronache hanno riportato solo come numeri.

“Presente!”: che possa essere questa la risposta che, oggi, riempirà il silenzio dopo la scansione d’ogni nome; prevalga, oggi, un sentimento di speranza e di fiducia in relazioni possibili tra Stati, basate sul confronto e sullo scambio pacifico, evitando che la celebrazione di questo anniversario sia invece, ancora una volta, l’occasione per ribadire accuse e colpe, per rimarcare differenze o per riscoprire le radici di quell’odio che troppo spesso prende la deriva della vendetta, della guerra e del sangue anziché tramutarsi in dialogo.

È questa la vera lezione che, più di ogni altra, l’11 settembre dovrebbe consegnare a chi l’ha solo sentito raccontare.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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