27 marzo 2021

Chiedo per un’amica

Autore: Ester Annetta
Un servizio di notifica attivato sul mio pc, segnala con buona frequenza, durante il giorno, notizie di varia natura tratte dai quotidiani cui è collegato.

A segnalarle è un piccolo riquadro che compare nell’angolo inferiore destro del monitor. Riporta solo il titolo della notizia ed il logo della testata da cui proviene; mi basta perciò spostare di poco lo sguardo per leggere e conseguentemente decidere – indotta da interesse o da semplice curiosità - se allargare o meno la finestrella per approfondire il contenuto dell’articolo.

Un titolo ha catturato qualche giorno fa la mia attenzione, divenendo lo spunto per considerare un’altra vicenda di cui, con grande partecipazione, sono stata testimone di recente. Recitava così: “A 88 anni “dottore” per 13 volte”.
La notizia si riferiva ad un gagliardo signore - medico di base in pensione da diversi lustri nonché ex sindaco del suo paese, in Puglia – autodefinitosi “lo studente più anziano del mondo”, avendo all’attivo una lunga serie di titoli accademici e specialistici, conseguiti allenando quotidianamente la sua memoria e applicandosi con dedizione allo studio durante tutto il corso della sua vita e fino ad oggi.
Una conferma, insomma – sebbene di natura assolutamente volontaria e non necessitata - del noto adagio “Gli esami non finiscono mai” che da’ titolo ad una commedia del grande Eduardo.

Ho ripensato così a Marianna che, a 54 anni, aveva creduto di poter finalmente smettere di studiare, dopo aver sostenuto, il mese scorso, un ultimo esame (un concorso definito “straordinario” non certo per eccezionalità di contenuti ma solo per tempistica, rispetto ai consueti ritmi dei bandi e delle prove pubbliche) che, in caso di vittoria, le avrebbe consentito l’accesso al ruolo e, dunque, la tranquillità di un incarico di insegnamento a tempo indeterminato fino alla meritata pensione.
La sua carriera di insegnante è iniziata casualmente nel 2014 quando, a seguito di una burrascosa separazione giudiziale, si era rimboccata le maniche per trovare un impiego che le consentisse una vita più dignitosa rispetto a quella che il mantenimento “offertole” dall’ex marito le prospettava.
Su consiglio di un amico sindacalista che si era preoccupato di predisporre per lei tutta la documentazione e presentare la relativa domanda, aveva così fatto ingresso nel nebuloso mondo della scuola, quello, per intenderci, condensato in un potpourri di leggi, decreti, ordinanze ministeriali, etc. dentro cui è impresa veramente ardita districarsi.

Affidandosi totalmente alle competenze dell’amico, aveva dunque rimesso in gioco le proprie – nello specifico una laurea in giurisprudenza riposta in un cassetto insieme all’abilitazione all’esercizio della professione – per reimpiegarle in altro modo.
Secondo le indicazioni del suo mentore (che lei, in assoluta buona fede e in piena fiducia non si era premurata di verificare), che aveva ritenuto che come “titolo abilitante” utile all’inserimento nella c.d. seconda fascia (quella mediana, posta tra i vincitori di concorso ma senza cattedra e quelli con la sola laurea) delle graduatorie di istituto, allora vigenti, potesse valere la sua abilitazione professionale, si era quindi iscritta nei relativi elenchi e di lì a un anno aveva cominciato a ricevere più o meno brevi incarichi di supplenza.

In nessuna occasione, durante i vari servizi di insegnamento che si erano succeduti negli anni a seguire e nemmeno a seguito del successivo aggiornamento delle graduatorie (intervenuto nel 2017) le era mai stata contestata la validità del suo titolo abilitante, che lei aveva continuato serenamente a dichiarare ogni volta con precisi estremi identificativi. Anzi, sia all’atto del suo secondo incarico che nell’ultimo anno, i dirigenti scolastici delle rispettive scuole di servizio le avevano rilasciato decreto di convalida del suo punteggio, tenendo conto anche di quel titolo.

Utilizzando tale presunta abilitazione Marianna aveva poi cominciato a partecipare a vari concorsi ed aveva persino conseguito – dopo un faticosissimo percorso constato di diverse prove selettive, di un corso di formazione affiancato da tirocinio e da una tesi finale con tanto di discussione e valutazione – il titolo specialistico come insegnante di sostegno nelle scuole superiori, assicurandosi così un canale prioritario nelle assegnazioni delle supplenze su quel tipo di posto che, fino ad allora, era stata comunque chiamata ad occupare (Marianna infatti non aveva mai ricevuto supplenze per insegnare la sua materia, diritto), quando le varie istituzioni scolastiche, esaurito il novero degli insegnanti specialistici, ad anno scolastico inoltrato iniziavano a “raschiare il fondo del barile” attingendo ad ogni graduatoria pur di reperire insegnanti da destinare alle classi con alunni con disabilità.

Del resto si trattava della naturale evoluzione di una maturazione che Marianna aveva raggiunto: quella posizione di “mediatore” tra gli adolescenti della classe e gli “adulti”-docenti, che la sua veste di “insegnante-di-sostegno-per-caso” le consentiva, era diventata per lei un’occasione di arricchimento umano straordinario. La graduale conoscenza della disabilità, delle esigenze particolari di ogni ragazzo/ragazza nella delicata fase dell’adolescenza, l’avevano avvicinata ad un universo sconosciuto e difficile, regalandole l’opportunità di interagire con esso, di sentire l’utilità del suo ruolo, di “abbracciare” tutti quei ragazzi come figli suoi.

Una mattina di qualche settimana fa Marianna ha ricevuto una telefonata della preside, che le ha comunicato di avere urgenza di parlarle.
Mai immaginando cosa potesse esserci di così grave e urgente, Marianna si è recata in presidenza, dove la dirigente, tutto d’un fiato, le ha riferito che stava per depennarla dalle graduatorie. L’ordine le era pervenuto dall’ufficio scolastico regionale che, dopo quell’ultimo concorso “straordinario” sostenuto da Marianna, aveva effettuato il controllo che in sette anni nessuna precedente amministrazione di quelle attraverso cui il suo fascicolo era passato aveva mai compiuto, scoprendo l’invalidità del suo titolo abilitativo all’insegnamento.
A cascata, di conseguenza, ogni altro titolo successivo frattanto conseguito sul presupposto del possesso di quella abilitazione rischia ora d’esserle invalidato.

A Marianna è crollato il mondo addosso. In un secondo ha visto vanificati tutti i suoi sforzi, lo studio forsennato, le nottate in bianco, tutta la fatica ed i sacrifici che aveva dovuto sostenere per ritagliarsi quello scampolo di sicurezza che, in un tempo non molto distante, sperava potesse condurla alla stabilità ed alla serenità d’una condizione non più precaria.

I giorni successivi a quella ferale notizia Marianna li ha trascorsi facendo la spola tra sindacati, presidenza e avvocati, con l’urgenza di ricostruire i fatti e valutare attentamente quali erano state, nella sua vicenda, le pecche di un apparato amministrativo che, come sempre, accecato da un burocratismo imperante, non ha osservato le priorità, ha trascurato i controlli dovuti, e, una volta rilevata una irregolarità, ha preteso di scaricarne la responsabilità esclusiva sull’utente, nonostante la sua buona fede.

Marianna avrà forse peccato di ingenuità e scrupolo iniziale, certo, ma ha perseverato nel suo errore – che altrimenti, se prontamente rilevato, le avrebbe consentito di cambiare il tiro - perché nessuno glielo ha mai contestato, consentendole, anzi, di costruire tanto altro su quelle fondamenta instabili.

Come se non bastasse, rischia adesso persino una denuncia penale per dichiarazione falsa, sebbene il falso non l’abbia mai dichiarato: a lei non difetta un titolo, difetta il valore che ha sempre attribuito a quel titolo.
Marianna oggi si trova in bilico, sospesa in un limbo d’incertezza che da un momento all’altro potrebbe tramutarsi in un atto risolutivo che non cancellerebbe solo il suo nome da una graduatoria o il suo volto dai riquadri dello schermo delle lezioni in DaD, ma la sua stessa dignità (anche economica!) e quella identità che, finalmente e tanto faticosamente, aveva conquistato.

Mentre scrivo, una nuova notifica mi segnala che, secondo il rapporto Eurydice, per un insegnante in Italia ci vogliono 35 anni di lavoro prima di raggiungere il massimo di retribuzione: penso che Marianna non ce l’avrebbe fatta comunque, ma si sarebbe accontentata anche di meno.
Quando le ho chiesto come la facesse sentire tutta questa assurda vicenda, mi ha risposto con serenità: “preoccupata, indubbiamente. Ma il messaggio vocale di Alessandro – il “mio” ragazzo “speciale”, che preferisce l’audio perché fatica a scrivere – che mi chiede Prof, tutto bene? Oggi non l’ho vista in videolezione e mi sono preoccupato, è una gratificazione ed un dono che il possesso di nessun titolo potrà darmi né tanto meno togliermi”.

Marianna non si è arresa: malgrado in una manciata di secondi, sul tabellone del Monopoli della sua esistenza si sia vista retrocedere di numerose caselle per aver pescato la carta degli “Imprevisti”, ha già messo in conto di ripartire, di ricominciare tutto da capo per arrivare nuovamente lì dov’era appena giunta, a costo di dover replicare ogni prova, ogni esame, ogni nottata insonne trascorsa sui libri. Perché per lei, davvero, pare che gli esami non debbano finire mai.

Le varie amministrazioni che nella sua vicenda hanno inequivocabilmente avuto una parte, saranno mai in grado di riconoscere la propria quota di responsabilità e offrirle parziale rimedio, giungendo ad un “equo contemperamento” senza che si debba passare attraverso un giudizio?

Chiedo per un’amica.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata
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