8 febbraio 2020

Coronavirus, tra credenze e pregiudizi

Autore: Ester Annetta

Che il coronavirus si stia diffondendo in maniera allarmante è un dato di fatto incontrovertibile; ma che altrettanto virali siano le false notizie che circolano sul web e sui social circa le cause e le radici del suo diffondersi è altrettanto preoccupante.

Persino l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha ritenuto di dover intervenire a riguardo, così che nel suo “Novel Coronavirus (2019-nCoV) situation reports” dello scorso 2 febbraio, nel dare aggiornamenti sulla diffusione del contagio, ha messo in guardia dall’“infodemia”, cioè dall’epidemia di informazioni fake sul virus e sulla sua diffusione.
L'International Fact-Checking Network - rete che riunisce esperti di verifica dell’informazione da tutto il mondo – ha a sua volta messo in campo un progetto che ha già coinvolto 48 organizzazioni provenienti da 30 diversi paesi, con lo scopo di verificare in maniera collaborativa e su scala globale le informazioni che riguardano il virus.

Tra le fake news più diffuse sul coronavirus il podio spetta alla notizia secondo cui esso sarebbe stato creato in un laboratorio segreto dal governo cinese, in funzione di una qualche possibile guerra batteriologica, e che sarebbe accidentalmente sfuggito, diffondendosi all’esterno.
Segue poi la notizia secondo cui esisterebbe già un vaccino contro il virus e che il suo diffondersi sarebbe pertanto una macchinazione ordita dalle industrie farmaceutiche titolari del relativo brevetto per poter vendere il farmaco.
Infine c’è la notizia che associa la diffusione del virus agli sbarchi di migranti perché, in una maniera o nell’altra, la tendenza a dar loro una qualche responsabilità che possa giustificare l’esigenza di doverli respingere rende ghiotta ogni occasione d’accusa nei loro confronti.
Ecco, dunque, che il dilagare di una epidemia finisce per diventare – anche in tempi moderni – il pretesto per trovare un colpevole cui addebitare responsabilità quanto più estese possibile, dando la stura a ideologie razziste che, pur col mutare delle società e delle civiltà, non cambiano.

Stavolta a farne le spese sono stati – accanto ai migranti – anche i cinesi.

La paura è che il virus possa contrarsi attraverso cibi oppure pacchi e plichi provenienti dalla Cina. La psicosi che si è innescata dunque è tale che i tanti “bazar” cinesi presenti nei quartieri di ogni città ed i ristoranti cinesi vengono disertati, e persino gli acquisti on line che prevedono spedizioni dalla Cina hanno subito un calo.
Eppure, come spiegano gli esperti, il rischio contagio non riguarda i cibi, poiché esso avviene unicamente per via respiratoria. Gli stessi cinesi che vivono in Italia, lungi dall’essere portatori del virus, possono contrarlo a loro volta come chiunque altro, e non è dunque un paradosso vederli in giro con le mascherine!
Infine, neppure le lettere e i pacchi provenienti dalla Cina devono destare preoccupazione, poiché è stato dimostrato che il virus non sopravvive a lungo fuori da un organismo e, pertanto, qualora si fosse posato sulla superficie di una corrispondenza, nel corso della spedizione andrebbe senz’altro a perire.
Vero è, tuttavia, che se persino un colosso come Apple annuncia la chiusura (temporanea) dei propri uffici, negozi e centri di contatto con il pubblico nella Cina continentale ''per un eccesso di cautela e sulla base degli ultimi consigli dei principali esperti della sanità”, è facile che gli allarmismi non si plachino.

Da qui a trasformare l’allarme in reazioni xenofobe il passo è breve, quasi fosse una necessità imprescindibile quella di additare un colpevole a tutti i costi, come se ciò servisse a giustificare le ragioni del contagio o, addirittura, delle sue conseguenze.

Ma, a ben vedere, questa tendenza è la reiterazione di un modus attivo da sempre.
La storia racconta che, in America, l’epidemia di colera del 1830 venne etichettata come la “malattia irlandese” e, parimenti, di quella di tifo scoppiata a New York nel 1892 fu attribuita la responsabilità agli ebrei russi.
Pure in Italia, in tempi non troppo lontani, dell’epidemia di colera esplosa nel pieno degli anni settanta a Napoli e in alcune zone della Puglia furono ritenuti responsabili i napoletani, a causa dell’eccessiva crescita demografica e perciò dall’aumento dei rifiuti.

Ma anche dove non è stato possibile attribuire colpe ad una popolazione o ad una etnia specifica, sono state designate delle “categorie” come colpevoli di alcuni contagi: è il caso dell’AIDS, a lungo considerato come punizione divina per gli stili di vita peccaminosi degli omosessuali.
Memoria letteraria ricorda, ancora, la peste di Milano raccontata da Manzoni ne I Promessi Sposi, dove “gli untori” erano ritenuti i diffusori del contagio e, di conseguenza, qualunque comportamento che fosse apparso anomalo diventava la prova evidente che il suo autore appartenesse a quella categoria, rischiando perciò il linciaggio.

Nel XXI secolo dovremmo essere un popolo più evoluto e meno suggestionabile, almeno così testimoniano i progressi delle scienze e delle tecniche.
Eppure, di fronte alla paura, sembra inevitabile ricadere in una sorta di regresso, tale da indurre a convinzioni e credenze del tutto irrazionali.

Se così è, allora sono forse in parte comprensibili alcune condotte.
Ma ove invece la paura fosse solo uno strumento per dissimulare altre tendenze ed ideologie, allora il problema non sarebbe più solo quello di combattere un’epidemia, ma quello ben più drammatico di dover vincere mascherati atteggiamenti discriminatori.

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