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L’estate del branco

Autore: Ester Annetta
Ci siamo quasi abituati – ed è terribile riconoscerlo – ad un drammatico incremento dei casi di femminicidi, ormai ricorrenti con una frequenza quasi quotidiana. Se ne contano 75 dall’inizio dell’anno e, come altrettanto regolarmente ormai avviene, d’estate se ne registra un picco sorprendente.

Ma quest’anno c’è stato anche un altro primato, tutt’altro che lodevole: un’impennata dei casi di stupro, che non si è limitata a quelli singoli, perpetrati tanto in luoghi aperti – strade, parchi - che tra mura domestiche, ma che ha spesso assunto i contorni di fenomeno da branco.

Ed è proprio questo, anzi, il dato più preoccupante giacché, oltre alla violenza in sé, denuncia guasti ben più gravi e profondi, di fronte ai quali la sola repressione penale rischia di essere inefficace.

La legge del branco risponde alla dinamica del condizionamento, all’incontrastabile sopravvento della volontà collettiva su quella individuale, che rinuncia così ad opporsi e a contrastare l’azione che pure si percepisce come deplorevole, poiché ciò significherebbe debolezza, inadeguatezza, incapacità di onorare un codice di condotta che funge sia da “iniziazione” che da “manuale operativo” per garantirsi uno status di appartenenza.

Ma non è soltanto questo.

A guardare più a fondo, la distorta ‘relazione di gruppo’ che fidelizza al branco trova la propria ragione in uno squilibrato rapporto di comunicazione, che affonda le sue radici in un’alterata percezione di modelli esterni per la cui interpretazione non sono forniti adeguati filtri nei contesti educativi, la famiglia in primis.

I giovani – adolescenti ma anche bambini – restano così privi di protezione, scoperti, sotto il bombardamento di schemi e figure che, veicolati da social e media, propongono l’immagine di una società dove bisogna primeggiare ed essere vincenti ad ogni costo, con conseguente frustrazione e disagio di quegli individui più deboli, ai quali non restano che la violenza e le condotte esuberanti per sentirsi adeguati ad un contesto da cui si sentono altrimenti respinti o, appunto, al ‘branco’ che pretende prove di fedeltà e coraggio.

I recenti fatti di Palermo e Caivano ne sono la dimostrazione.

Quegli stupri poco hanno a che fare con l’atto sessuale in sé; piuttosto sono l’espressione di un desiderio – un bisogno, anzi – di affermazione di potere da parte degli aggressori che così dimostrano la propria violenta superiorità su un essere che considerano debole ed inferiore e, dunque, disprezzano.

La violenza di quei giovani è figlia di questi tempi; è il parto di una società che detta modelli che indirizzano verso l’affermazione della dominanza, del potere di controllo, dell’onnipotenza che hanno come costo l’umiliazione e la degradazione del ‘sottomesso’, della vittima, che nemmeno è più percepita come individuo ma come oggetto e preda.

L’agire in gruppo rafforza, evidentemente, una tale dinamica, operando, da un lato, come ‘rinforzo’ rispetto all’intenzione di voler far sentire la vittima annientata e senza scelta se non quella di sottomettersi alla volontà ed alla violenza dei suoi componenti; dall’altro, come dimostrazione di lealtà e rispetto delle regole di un insano consorzio e, dunque, condizione per poterne essere degni membri.

Al tempo stesso, l’agire univoco ridistribuisce le responsabilità della condotta, ne distorce la percezione, offrendo, in qualche misura, una ‘giustificazione’ a quanto commesso, e consentendo perciò di prenderne le distanze, riducendo conseguentemente anche il coinvolgimento morale ed emotivo.

Un tale disimpegno giunge perciò perfino a consentire di considerare con sufficiente leggerezza l’opportunità di filmare la scena dello stupro, diffonderla sui social e poi andarsene tranquillamente a far merenda in rosticceria!

Viene però da domandarsi se altrettanto disimpegno non vi sia da parte di quanti, pur deplorando la condotta del branco attraverso commenti ed attacchi social, con morbosa curiosità continuino tuttavia a setacciare il web alla ricerca di quei video, a riproporne l’umiliante spettacolo, ad amplificare perciò il dramma delle vittime.

Ma questa è un’altra storia.

Ciò che invece va qui considerato con altrettanta preoccupazione è l’età sempre più giovane degli autori di quelle deprecabili azioni: sia a Palermo che a Caivano si tratta perlopiù di minorenni.

Ecco allora la riflessione che necessariamente occorre fare: a fronte di norme esistenti che puniscono delitti in cui vittime sono le donne in quanto tali, il problema è prima ancora che la mancanza di una loro efficace applicazione quello di una altrettanto deficitaria educazione ai fondamenti del rispetto umano, che passa per prima – ed è sempre più evidente – dalla mancanza di uno sforzo deciso e concreto nel contrasto alla disparità di genere.

La conclusione è perciò inevitabilmente che la violenza contro le donne è una questione che riguarda non soltanto la modalità – del singolo o del branco – con cui viene compiuta e che nemmeno basta combatterla inasprendo le pene; piuttosto serve mettere in campo, a monte, un’azione diffusa e condivisa – da parte delle famiglie, della scuola e delle istituzioni – per ampliare l’insegnamento del rispetto e dell’empatia ed educare alle emozioni.

È dunque una questione culturale prima ancora che giuridica e normativa, ed è solo l’impiego di interventi concreti e seri negli ambiti deputati alla ‘formazione’ che potrà portare a quel cambiamento ideologico e sociale che è il fondamento di una società civile.

Non è il contrasto ma il mutamento lo strumento da offrire alle nuove generazioni per abbattere le anomalie che degradano il progresso e l’uguaglianza.
 © FISCAL FOCUS Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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