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La casa sul ciliegio

Autore: Ester Annetta
In un Paese in cui è sempre più smentito l’antico proverbio per cui ‘l’abito non fa il monaco’ e dove – soprattutto – è diffusissima la pratica di innescare polemiche e creare dibattiti sul nulla (o poco più), certe notizie finiscono per avere più eco di quanta realmente ne meritino e vanno altresì ad alimentare quella tendenza all’”espertismo” che dalla pandemia in poi è divenuta dilagante.

Tra saccenza e moralismo, chiunque può perciò atteggiarsi a paladino di taluna o talaltra ideologia e condurre la propria crociata su terreni che, spesso, di ideologico hanno ben poco.

In quest’ultima settimana si è dunque assistito ad un fermento di opinioni che, partendo dalle dichiarazioni fatte da Elly Schlein su Vogue circa le sue difficoltà a scegliere i vestiti e ad abbinare i colori, tanto da dover ricorrere ad una consulente generosamente pagata, ha innescato una reazione talmente amplificata che, d’improvviso, una parola – ‘armocromia’ –, dapprima sconosciuta ai più, è diventata il tema e la tendenza del momento.

Poco dopo si è aggiunta (anche se con tono molto minore) la sequela di commenti e pareri sugli esiti di uno studio secondo cui un accessorio da sempre simbolo di eleganza – la cravatta – fa malissimo alla salute, giacchè nodi troppo stretti potrebbero ridurre il flusso sanguigno al cervello, aumentare la pressione oculare portando addirittura ad un aumento del rischio di glaucoma, oltre ad essere un pericolosissimo trasmettitore di batteri.

Da ultimo, si è arrivati alle prevedibili disquisizioni sulla cerimonia di incoronazione di Carlo III, che più che per il suo valore istituzionale, pare interessare maggiormente per il gossip attorno alla partecipazione o meno di esponenti malvoluti della famiglia reale e per la parata di vestiti e gioielli che saranno sfoggiati.

Proprio nel bel mezzo di un tale turbinio di questioni di forma e di apparenza, mi è capitato di imbattermi nella lettura di una notizia che mi è sembrata proprio un opportuno e acuto contrapposto.

C’è un uomo di poco più di quarant’anni che da cinque vive in una casetta di legno su un albero di ciliegio in un bosco del Nord Italia.
L’immagine che immediatamente mi si è aperta in mente è stata quella del barone rampante narrato nel romanzo di Calvino, dove l’iniziale capriccio di un dodicenne che, dopo un litigio con i genitori, si arrampicava su un albero dichiarando che non sarebbe sceso più, diventava col tempo una scelta di vita fondata e consapevole, una diversa prospettiva da cui osservare e giudicare il mondo.

È ciò che ha fatto Gabriele Ghio – questo il nome nel ‘novello barone rampante’ – che dopo un grave incidente che gli è quasi costato la vita ed una serie di difficoltà, anche sentimentali ed economiche, ha compiuto una scelta radicale, staccandosi da ‘una vita qualunque’, come lui stesso l’ha definita, per abbracciare una nuova dimensione, lontana da formalismi, conformismi ed eccessi.

Mentre era in ospedale per curare il suo volto - sfigurato dalla propria auto, cadutagli addosso mentre, come sempre, stava lavorandoci con la consueta cura maniacale – Gabriele si è ritrovato ad osservare il dolore e la malattia di chi gli stava intorno. Un male reale, fisico, non un malessere interiore come il suo, causato dall’insoddisfazione di un’esistenza piatta e vuota.

Ed è stato lì che ha maturato la decisione di cambiare vita, di renderle un valore più vero e profondo, di restituirle il senso perduto a quel vissuto fino ad allora condotto stancamente.

E lo ha fatto trasformando quella che doveva essere, inizialmente, una soluzione temporanea all’aver perso lavoro e casa, in una scelta definitiva e drastica.

Sei metri quadrati; niente acqua corrente, niente luce, niente riscaldamento.

Eppure proprio lì, in quel piccolo ‘nido’ Gabriele ha riscoperto la bellezza dell’esistenza: quella fatta di essenzialità, di suoni e colori della natura, del loro avvicendarsi con lo svolgersi delle stagioni, di armonia che, del tutto gratuitamente, possono arricchire i sensi e l’anima.

Ha scritto anche un libro Gabriele, “La mia casa sul ciliegio”, che non vuole affatto essere un invito a seguire pedissequamente il suo esempio (sarebbe a sua volta un eccesso!), quanto piuttosto il manifesto di un nuovo modo di vivere: avvolto nella semplicità, nell’autenticità, nella verità.

«Siamo tutti presi dalle corse frenetiche di questa vita. Se solo rallentassimo, ci renderemmo conto che le cose di cui abbiamo davvero bisogno sono poche. Io non so se ho trovato una giusta direzione, non so in cosa si tradurrà in futuro questo mio vivere solitario, ma la sensazione di aver interpretato un desiderio mi rafforza. I sogni vanno realizzati. È compito di ogni uomo fermare la propria vita, volgere lo sguardo al futuro e restituire al mondo una parte di se stessi. È solo così che si può ringraziare per il nostro transito qui».

Dovremmo tutti trovare la nostra ‘casa sul ciliegio’ e rifugiarci lì ogni volta che ci lasciamo condizionare da pregiudizi, da mode e da etichette e, soprattutto, quando lasciamo che le nostre scelte siano dettate più dall’opportunità e dalle convenzioni piuttosto che da una nostra precisa e convinta volontà.

Allora si che non troverebbero cittadinanza sterili dibattiti.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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