27 maggio 2020

La lezione del Covid 19 ed il sovranismo della tecnologia e della ricerca

L’esperienza emergenziale causata dal Covid 19 ci consegna diverse lezioni da apprendere, alcune in campo sanitario altre in ambito civile e di convivenza tra cittadini. Ma c’è una riflessione che emerge con prepotenza nel dibattito nazionale che ha natura prettamente economica ed è quella che vorrebbe invocare un nuovo sovranismo alle frontiere ma che dimentica che l’unico sovranismo al quale avrebbe senso aspirare oggi è quello della tecnologia e della ricerca. Con investimenti pari all’1,38% del PIL nazionale, destinati al settore, come ricorda l’ISTAT con dato riferito al 2017, l’esigenza di essere connessi con altri poli di studio internazionali ci rende un Paese dipendente dalla conoscenza altrui. Una parabola che ha effetti in tutti i mercati, profondamente cambiati con la globalizzazione dei servizi e delle produzioni, ed alla quale sarebbe utile proporre un approfondimento in termini di effetti sulla economia.

Autore: Francesco Andrea Falcone
Per quanto probabilmente prematuro e possa sembrare inopportuno rispetto alla conta quotidiana di cittadini scomparsi a causa della epidemia da Covid19, cercando di eludere in tutti i modi il piglio di quelli che potrebbero dire “ve lo avevo detto io” e dei quali è pieno il dibattito nazionale, forse una riflessione su quali lezioni in termini economici possa offrire quello che ci sta accadendo sarebbe da avviare.

Ed è necessario farlo oggi perché il timore è che quando tutta questa vicenda sarà passata potremmo dimenticarci in fretta di come siamo arrivati a toccare le difficoltà che viviamo in una economia dei mercati globale, nelle regole di concorrenza della Unione Europea, rispetto ai problemi di approvvigionamento dei materiali, nella considerazione di quante imprese italiane producano beni che sono inseriti a loro volta nella catena di produzione di imprese collocate altrove.

Un primo assunto basilare sarebbe quello di analizzare il Paniere dei prezzi al consumo elaborato annualmente da ISTAT per osservare quanta parte dei prodotti che entrano ed escono costantemente da quella analisi è creata in Italia e quanta parte di essa è frutto della ricerca tecnologica italiana. Per quanto un criterio elementare e certamente non esaustivo si osserverà che in tutti i nuovi accessi visionabili dal 2013 ad oggi, ed ovviamente anche prima, gli indirizzi di consumo degli italiani continuano a privilegiare scelte ad alto valore tecnologico e non può essere diversamente perché i nostri cittadini vivono il mondo attraverso gli strumenti che sono comuni a tutti gli altri.

Nelle scelte di consumo del 2020 entrano in valutazione quelle legate ad esempio alla diffusione delle automobili ad energie alternative o del monopattino elettrico, le formule di diffusione della consegna di pasti a domicilio che hanno bisogno di applicazioni software e strumenti di pagamento digitali, l’enorme crescita dei servizi di trasporto sospinti dalla rapida diffusione del commercio on-line a sua volta dipendente da servizi di tecnologia, software, hardware, applicazioni, linguaggi, e la costante crescita delle spese per l’organizzazione domestica sempre più influenzate da strumenti di uso quotidiano che hanno a che fare con l’elettronica di consumo.

Una tendenza in crescita costante che può far riflettere su un tema generale: chi costruisce questi prodotti? Chi li ingegnerizza? Con che linguaggi sono realizzate le applicazioni? Con quali software comunichiamo tutti i giorni e chi ne controlla la proprietà?

Quando anche la diretta dai social diventa una forma di comunicazione ufficiale di Stato ci si domanderà anche chi mette a disposizione quelle piattaforme e cosa ci guadagna o quanto dipendiamo tutti da questi sistemi il cui business sottostante è realizzato altrove.

Potremmo estendere l’osservazione a molti e molti settori in cui si sviluppa la domanda di beni e servizi nel nostro Paese come nel resto del mondo ma credo si ecceda nella retorica rispetto a considerazioni già molto chiare, tuttavia chiunque potrà dedurre facilmente quanto l’interconnessione nella quale realizziamo la nostra vita rispetto ai mercati è tale da rendere complesso e non sostenibile qualsiasi percorso di politica economica che invochi un ritorno al sovranismo delle produzioni senza rischiare di perdere enormi comparti di conoscenze e tecnologie necessarie per produrre e distribuire beni e servizi sul nostro territorio. Sul piano della ricerca poi il dato rilevabile dalle pubblicazioni ISTAT non è affatto confortante: nel 2017 l’ISTAT ha certificato che gli investimenti in questo settore siano stati pari all’1,37% del PIL di cui circa lo 0,8% proveniente da investimenti privati.

Nel 2018 i valori restano gli stessi. Di queste somme solo un miliardo di euro l’anno confluisce nella ricerca dedicata alla salute umana e quasi sempre a copertura di oneri legati al personale dedicato. La sola Germania investe oltre il 4% del PIL per il suo avanzamento tecnologico.

In questo contesto di scarsa presenza delle nostre attività di sviluppo nei settori che maggiormente costituiscono lo scheletro dei consumi non più solo nazionali, i quali sono concentrati nei mercati delle commodities quasi in prevalenza, quale politica sovranista ci consentirebbe si sopravvivere rispetto alla concorrenza estera?

E quindi l’unico sovranismo in economia a cui avrebbe senso aspirare è quello di diventare protagonisti nel profilo delle produzioni ad alto contenuto tecnologico, nella ricerca in tutti i settori nei quali oggi trova applicazione lo sviluppo scientifico perché l’alternativa sarebbe continuare a dipendere in ogni caso dalla conoscenza altrui ma con nuove barriere commerciali.
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