17 aprile 2021

La mattanza mozambicana

Autore: Ester Annetta
Una guerra per l’indipendenza il Mozambico l’aveva già combattuta, lunga, devastante.

Era iniziata nel 1964, quando i guerriglieri del Frelimo (Frente de Libertaçao de Moçambique) avevano intrapreso un sanguinoso conflitto contro le forze armate del Portogallo, che sin dai tempi della dispotica colonizzazione successiva alla scoperta del nuovo continente, non aveva mai smesso di sfruttare, discriminare e ridurre in schiavitù le popolazioni indigene.

Era durata dieci anni quella guerra, e forse nemmeno sarebbe stata conquistata la tanto agognata indipendenza - stante la superiorità bellica dei rivali – se non avesse giocato a favore dei guerriglieri mozambicani il colpo di stato che, nella madre patria portoghese, nel 1974, con la famosa Rivoluzione dei Garofani, aveva rovesciato il regime autoritario di Salazar ripristinando la democrazia ed avviando un profondo cambiamento politico.

Ma non era ancora finita, perché due anni dopo quella conquista, era iniziata una altrettanto lunga e sanguinosa guerra civile, protrattasi dal 1977 al 1992, che avrebbe finito per aggravare le già misere condizioni economiche di una terra dove i morti ed i profughi si contavano a milioni e che aveva pagato il prezzo dell’indipendenza con una profonda recessione economica.

Il Frelimo, per far fronte alla grave crisi lasciata dalla guerra aveva difatti pensato di allinearsi politicamente con l'Unione Sovietica e chiedere supporto ai paesi del blocco comunista. Era così diventato partito unico del Mozambico, rinato come paese socialista, appoggiato soprattutto dall'Unione Sovietica e da Cuba.

Sulla scacchiera dove si giocava ancora la partita della guerra fredda era evidente che dovesse esserci una risposta statunitense, che, difatti, non si era fatta attendere: contro il Frelimo avevano iniziato ad agitarsi i movimenti indipendentisti e anti-apartheid dei vicini Sudafrica e Rhodesia che, ben presto, con l'apporto degli Stati Uniti, giunsero a finanziare la costituzione di un esercito di liberazione anti-comunista, la Renamo (Resistência Nacional Moçambicana). Erano così iniziati una serie di attacchi contro le strutture del paese (inclusi ferrovie, scuole e ospedali), sfociati in una guerra civile che sarebbe stata il più lungo conflitto del continente africano e che, se anche sulla carta sarebbe terminata con gli accordi di Roma firmati il 4 ottobre 1992, di fatto sarebbe proseguita tra attacchi e tensioni molto oltre, intensificandosi tra gli anni 2013 e 2016.
Nel 2019 era infine stato siglato a Maputo, tra il Presidente mozambicano (del Frelimo) e il capo della Renamo, un accordo di pace e di riconciliazione, con l’impegno a far si che il Mozambico non fosse più teatro di guerra, e la dichiarazione di un processo di pace “ormai irreversibile”. Di fatto così non era stato; l’equilibrio raggiunto si era rivelato ben presto fragile, anche alla luce di dissidi interni alla stessa Renamo ed inevitabili ripercussioni esterne.

Ma non è tutto.

E qui s’apre il capitolo di quella che pare essere la nuova guerra di indipendenza mozambicana, ancora combattuta contro lo sfruttamento, ma stavolta d’una matrice che sembra ancora più bieca e meschina, perché sottesa agli interessi economici di grandi imprese, di multinazionali, che, come nuovi colonizzatori, pretendono di accaparrarsi le ricchezze del paese a discapito delle popolazioni locali, cui non viene corrisposto alcun beneficio né ristoro.

È già qualche anno che il nord del Paese, nella zona di Cabo Delgado, subisce le minacce e gli attacchi di gruppi di jihadisti; tali azioni sono diventate più frequenti e sanguinose a partire dal 2017, quando una insurrezione ha causato la morte di oltre 800 persone. Il gruppo di jihadisti che ha inaugurato la nuova scia di sangue (e che contava già decine di attentati sparsi tra gli otto distretti della provincia di Cabo Delgado, tra le località di Mocimboa da Praia, Ancuabe, Ibo, Macomia, Meluco, Nangade, Palma e Quissanga) è stato ribattezzato dalla gente locale col nome di “al-Shabaab”, che in arabo significa “gioventù” (ma non ha alcun legame con l’organizzazione terroristica somala nota con lo stesso nome) e che i media preferiscono invece definire – sottolineandone una specifica connotazione politica - Ahl-e-Sunnat wal Jamaat (che significa “seguaci della tradizione e dell’unità sunnita”).

Le offensive compiute sono state di diversa entità, condotte con le armi più disparate (da fuoco e da taglio, come machete e altri oggetti metallici) e accompagnate da forme minime di saccheggio (furto di cibo e di altri beni essenziali), da rapimenti (di donne in particolare, destinate a divenire schiave del sesso) e da esecuzioni sommarie (decapitazioni in primis).

Eppure questo stillicidio è rimasto lontano dalla lente degli osservatori, quasi indifferente all’interesse delle cronache ma, soprattutto, degli altri stati mondiali. Fino alle scorse settimane, quando – esattamente il 24 marzo – la città di Palma, ai confini con la Tanzania, è stata attaccata da centinaia di quei “giovani” (Al Shabab) ribelli armati. Per giorni centinaia di persone si sono rifugiate, in attesa dei soccorsi, in un hotel della città, l’Amarula, tenuto sotto assedio dai terroristi; molte erano già fuggite nei giorni precedenti, rifugiandosi nella città di Pemba, 250 km più a sud. Il numero esatto delle vittime dell’assedio (terminato solo pochi giorni fa, con la ripresa della città da parte dell’esercito nazionale) non si conosce ancora, ma la mattanza è stata terribile e non ha risparmiato nemmeno i bambini, molti dei cui corpi sono stati lasciati decapitati.

Anche questo attacco, come tutti i precedenti, sarebbe passato probabilmente in sordina e non avrebbe guadagnato – come invece è stato - le prime pagine dei giornali se non fosse avvenuto in una zona nota per ben altri interessi. È qui, infatti che si trovano giacimenti di gas naturale per le cui esplorazioni già varie compagnie petrolifere – tra cui la nostra ENI e l’americana Exxon Mobil – hanno firmato contratti; il più grande è ora in mano alla Total – il colosso francese degli idrocarburi – e dei suoi subappaltatori, che avevano appena annunciato la ripresa delle estrazioni dopo una sospensione di tre mesi disposta proprio per ragioni di sicurezza a seguito di altre azioni dei ribelli.

Si tratta del più consistente investimento del momento in Africa, per un valore di circa venti miliardi di dollari. Quei giacimenti potrebbero trasformare l’economia mozambicana, che attualmente è una delle più povere del continente africano; ma i ribelli si oppongono al loro sfruttamento ben consapevoli che, di fatto - com’è stato finora - loro, i “giovani” emarginati (ma in realtà la popolazione tutta) non ne trarranno alcun vantaggio, continuando a restare ai margini di partite di interessi che si giocano a più alti livelli, vittime e non beneficiari di enormi investimenti, di una corruzione documentata e dell’indifferenza di un governo centrale molto lontano, anche in termini di distanza chilometrica (Maputo, la capitale mozambicana, è difatti 2.300 chilometri più a sud).

Come sempre, si è fatto presto a indicare l’azione di questi ribelli con la generica etichetta islamica, quella che solitamente si identifica con l’azione globale più estremista che siamo abituati a accusare e condannare. E, invece – ma senza con ciò voler assolutamente minimizzare la gravità dei fatti di sangue - potrebbe essere che stavolta si tratti di qualcosa di diverso, di una forma di opposizione non scatenata da fanatismi ma dal tentativo di contrastare una condizione di emarginazione e di sfruttamento nei cui confronti si è dimostrata una totale, indistinta cecità.

L’Africa è un territorio la cui vastità è pari a quella della povertà che vi alberga. È così dai tempi delle prime colonizzazioni ed è così ancora oggi, nell’era delle nuove colonizzazioni. Certe popolazioni sembrano aver scritto nella loro stessa genealogia un destino di inferiorità e di soprusi, contro la cui demolizione non esiste affatto un reale, autentico impegno. Le logiche del vantaggio tendono inevitabilmente ad avere un peso superiore.

Sono stata in Mozambico sette anni fa, insieme a quel gruppo di “volontari di pace” cui ho già un’altra volta accennato (cfr La guerra dei dieci anni del 20 marzo scorso); ho trascorso due settimane in una missione, di quelle fondate e seguite sul campo non da grosse organizzazioni umanitarie ma da una semplice realtà parrocchiale, che continua a curarla col solo sostegno economico che proviene dalla solidarietà della gente comune.

Sul mio diario di viaggio di quei giorni ho riletto l’appunto sulle prime impressioni registrate al mio arrivo, nel tragitto che dall’aeroporto di Maputo conduceva a Mafuiane, il piccolo villaggio nel sud del paese dove sorge la Missione San Frumenzio, la mia destinazione.

Un solo sguardo era allora bastato per capire quanto il contrasto potenza-povertà fosse – e sia ancora oggi - il campo sui cui si sfidano gli interessi economici altrui a danno della crescita e dello sviluppo delle popolazioni locali.

Riporto quelle righe:
Il vecchio van che ci raccoglie tutti attraversa la zona periferica della capitale. Dai vetri dei finestrini, tanto vecchi da esser diventati ormai opachi, la realtà che si coglie sembra essere ulteriormente deformata…o almeno spererei che fosse così: file di piccole case più simili a baracche che a vere costruzioni; intervalli di piccoli ed arrangiati mercati dove lunghi filari di indumenti sembrano come stesi ad asciugare al sole piuttosto che esposti al gusto di possibili acquirenti; cesti di ortaggi e tuberi; gabbie abitate da anatre e galline, ed un’infinità di oggetti eterogenei che noi superbi abitanti di terre superiori alla linea dell’equatore disprezzeremmo come inutili cianfrusaglie. Sporcizia e degrado; povertà tangibile. Cigli di strada invasi da questuanti di ogni fatta, sullo sfondo di giganteschi cartelli pubblicitari che si contendono la scelta dei possibili utenti con il richiamo di “imperdibili” offerte telefoniche: sembrano un’offesa, monumenti che beffeggiano la povertà, abusi di poteri sbattuti con violenza e senza rispetto in faccia al nulla posseduto da questa gente.”

Non illudiamoci, allora. Le guerre ed i conflitti non cesseranno mai, finché non si sarà appresa la lezione del rispetto del prossimo e messa da parte la cultura dello sfruttamento e della sopraffazione.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata
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