Il primo sentimento che connota questa seconda ondata dell’infezione è la rabbia.
Da quell’ormai lontano 4 maggio quando, finalmente liberi dalla cattività domestica, ci siamo lentamente riappropriati dei nostri spazi, delle nostre abitudini, delle nostre vite, concedendoci persino il piacere di un’insperata vacanza estiva, abbiamo – ingenuamente – creduto che il peggio fosse ormai passato, che avessimo ormai trovato, se non il rimedio, almeno la strategia per convivere col virus.
Così abbiamo di nuovo riempito le piazze, i bar, i ristoranti, le palestre, le piscine… Dapprima prudentemente, poi con sempre maggiore spavalderia, reputandoci audaci domatori che ben avrebbero saputo contenere gli agguati del nemico in un recinto fortificato.
L’illusione è durata il tempo di una vacanza: non solo quella che ci siamo concessi, ma quella intesa come “assenza” di rigore, di monitoraggi costanti e pressanti, di solide imposizioni, indotta da una perversa “logica premiale” in virtù della quale, dopo il lungo e solitario patimento imposto dal lockdown, qualche eccesso diventava lecito. Anche la nostra economia, del resto, aveva bisogno di rifiatare, di prendere una boccata d’ossigeno che solo l’indotto turistico – benché quasi esclusivamente nostrano – avrebbe potuto garantire.
Nel mentre si sarebbe dovuta preparare la strategia vera, quella complessiva e adatta al lungo periodo, in grado di consentire d’affrontare con i corretti strumenti l’”anno nuovo”, segnato dalla riapertura delle scuole, dalla ripresa di quelle attività (quali cinema, teatri, ecc.) che erano rimaste inesorabilmente ferme e dall’adattamento di quelle altre che, pur essendo state riavviate, in vista del cambio di stagione avrebbero dovuto riorganizzarsi rimodulando spazi e ambienti secondo le regole del distanziamento.
Ma poi la partenza si è rivelata falsa e, ancor di più, falso è stato il primo tratto del nuovo percorso, apparso ben presto più imprevedibile e accidentato di quanto pronosticato.
Il tratto ascensionale della parabola dei contagi ha perciò registrato nuovi picchi e l’inadeguatezza degli interventi spiccioli ed estemporanei ha imposto ancora una volta il ricorso alla decretazione d’urgenza.
Si è allora adottata una linea mediana, un semi-lockdown che, se da un lato ha voluto esorcizzare il timore di una nuova chiusura totale, dall’altra ha tuttavia parimenti ingenerato malcontento in quelle categorie che, nuovamente, si sono viste maggiormente penalizzate. Senza peraltro contare le diffuse perplessità sulla reale efficacia dei rimedi proposti!
Ecco, allora, scatenarsi la rabbia, prontamente tradotta in protesta, lotta, facinorosità.
Milano – come Torino, Roma, Napoli – è tornata ad essere scenario di una rivolta che sembrava rievocare il "tumulto di S. Martino" di manzoniana memoria, con la differenza che ora ad essere assaltati non sono solo i forni, ma cellule di infiltrati e provocatori pilotano danneggiamenti e saccheggi contro bersagli indistinti, per poi dileguarsi all’arrivo di novelli – e risolutori - capitani di giustizia.
Tanto rumore, tanta disperazione, tanta violenza e il doloroso lamento di un mesto gregge di lavoratori che si è sentito tradito da un pastore che aveva promesso guida e ristoro.
Il secondo sentimento è quello dell’angoscia, che è una cosa diversa dalla paura che ha dominato la prima fase, quando la pandemia è cominciata.
La paura è lo stato emotivo dato da un pericolo presente, determinato e identificato qual era allora il virus; se ne conoscevano le caratteristiche e l’aggressività, se ne vedevano ogni giorno gli effetti, e ciò era sufficiente a ricondurci tutti a quel comune sentire.
L’angoscia è diversa. Subentra quando si percepisce la sensazione di impotenza, di ineluttabilità di fronte ad un evento di cui ci si era illusi d’essere padroni, che si credeva di poter controllare e gestire e che invece si rivela una potenza maggiore di quella misurata, tale da consentirgli di aggirare le difese che erano state approntate.
L’angoscia è la sensazione di disfatta che si prova davanti all’impossibile, quando si comprende di non aver di fronte nulla di definito contro cui agire: è il sentimento sostenuto dal non presente, dal non determinato e non identificato, ossia dal niente.
La differenza tra i due concetti l’aveva già delineata il filosofo Heidegger nella sua opera più famosa, Essere e Tempo, dove paura e angoscia venivano indicate come dimensioni “esistenziali”, connotanti cioè l’esistenza reale degli individui: abbiamo paura sempre di questo o di quell’ente determinato, che in questo o in quel determinato riguardo ci minaccia. La “paura di…” è sempre anche paura per qualcosa di determinato. Nell’angoscia si è spaesati, ma non si può dire “dinanzi a che cosa” si è spaesati, perché lo si è nell’insieme. E poiché non c’è un indirizzo preciso verso cui focalizzare questa angoscia ecco che essa rivela il niente ed il nessuno.
Rocco Ronchi, filosofo contemporaneo, ha ricontestualizzato questa dicotomia in un suo recente ed efficacissimo articolo dove così scrive: “La prima ondata del virus è stata quella della paura, l’impreparazione era il suo orizzonte. Siamo stati colti di sorpresa. La seconda è quella dell’angoscia, perché, dopo la prima, ci siamo preparati a riceverla, ma, come accadeva al matematico pitagorico alle prese con l’irrazionale, ci sentiamo incapaci di “contenerla” in una misura.”
Ecco, è questo ciò che è accaduto: l’essersi riscoperti niente e nessuno.
Oltre alle morti contate con la prima ondata, il virus ci ha inflitto una seconda disfatta, non meno dolorosa: ci ha rivelato la nostra inettitudine, la nostra incapacità e – ancora una volta – la nostra recidiva colpa: la mancanza di umiltà.
La lezione impartitaci a marzo, quando la pandemia ci ha colto di sorpresa, zittendoci e annichilendoci, è stata presto dimenticata.