23 gennaio 2021

Rivoluzioni

Autore: Ester Annetta
I segni premonitori di una rivoluzione (pacifica, s’intende) ci sono tutti sia nella dichiarazione d’intenti del suo programma sia nelle scelte operate per designare i suoi primi collaboratori: Joe Biden, il 46esimo Presidente degli Stati Uniti ha lasciato chiaramente intendere che, con lui alla guida, per l’America comincia a spirare un vento nuovo, simbolicamente ripreso da quello zefiro che, nel giorno del suo giuramento, sventolava le 200mila bandiere issate sulla piazza del Campidoglio, a sostituire un pubblico tenuto lontano (ma solo fisicamente) dalla prudenza suggerita per contrastare la pandemia.

L’America con Biden volta pagina, rompe col passato, per seguire l’esortazione ad una unità nazionale sotto cui le divisioni generate dalla rabbia, dalle bugie, dalla pandemia possano essere annullate: è questo il nucleo centrale del primo discorso del Presidente, venti minuti in cui, offrendosi all’America, Biden ha promesso di renderla migliore, di essere il presidente di tutti gli Americani, di metterci “tutta l’anima”, riprendendo l’espressione che già fu di Abraham Lincoln nel Proclama di emancipazione del 1863.

La sua rivoluzione è iniziata con segni molto significativi, di quelli che rivelano la volontà che alla dittatura della monocromia si sostituisca la democrazia dei colori: la scelta di una donna alla vicepresidenza – la prima nella storia degli Stati Uniti - la Kamala Harris dal forte temperamento che assegna un codice anche alle tinte degli abiti che indossa, simboli delle sue idee e del suo impegno nella difesa dei diritti dei più deboli; la nomina del veterano transgender Shawn Skelly a far parte della sua squadra di transizione presidenziale presso il Dipartimento della Difesa incaricata di garantire un regolare trasferimento di poteri (una nomina che, in un certo senso, anticipa l’impegno già dichiarato da Biden e dalla Harris di revocare il divieto discriminatorio imposto da Trump all’accoglimento di persone trans nell'esercito); la nomina di Rachel Levine alla carica di sottosegretario alla Sanità, prima persona transgender ad essere confermata ad un incarico federale dal Senato dopo aver ricoperto omologo ruolo in Pennsylvania, dove in questi mesi ha avuto un ruolo cruciale nella lotta alla pandemia e la cui “stabile leadership e l’ampia conoscenza” sono ciò di cui c’è bisogno – secondo il Presidente - “per affrontare la pandemia, a prescindere dalla razza, religione, orientamento sessuale, identità di genere o disabilità”.

Nel corso della sontuosa cerimonia dell’inauguration day, scandita in tempo reale dalle tv e dalle testate giornalistiche di tutto il mondo, sulla Bibbia di famiglia, vecchia di 127 anni, Biden ha infine pronunciato la formula del giuramento: "Io, Joseph Robinette Biden, giuro solennemente di adempiere con fedeltà all'ufficio di presidente degli Stati Uniti, e di preservare, proteggere e difendere la Costituzione degli Stati Uniti al meglio delle mie capacità. Che Dio mi aiuti". Appena un giorno dopo, senza por tempo in mezzo, ha firmato 15 ordini esecutivi - dall’obbligo dei 100 giorni di mascherina, allo stop alla costruzione del muro di confine col Messico, al rientro degli USA nell’accordi sul clima di Parigi – manifestando inequivocabilmente la definitiva presa di distanza dall’agito di Trump.

Come tutto l’universo mondo, anche l’Italia ha ripreso e rimandato in tempo reale, commentandole, le fasi dell’imponente cerimonia d’insediamento di Biden, incluse le performance di Lady Gaga e Jennifer Lopez. Ovvio, necessario: è una questione di equilibri, relazioni, mercati e ricadute varie.

Quasi contemporaneamente l’America ci restituiva il favore, dando spazio nei suoi organi di stampa (il New York Times, in specie) ad una notizia nostrana, una rivoluzione anch’essa, diversa, ma non di meno peso, che invece noi stessi abbiamo avuto la dabbenaggine di far passare nei notiziari tv con la fulminea rapidità d’un flash d’agenzia e relegato nelle pagine interne dei quotidiani.

Eccola la notizia: a poco più di un anno dal blitz scattato nel dicembre 2019 con l’operazione “Rinascita Scott”, che ha comportato la cattura di oltre 300 persone tra boss e affiliati alle cosche della 'ndrangheta del vibonese, collegati col mondo istituzionale, politico, imprenditoriale e della massoneria deviata, lo scorso 13 gennaio, nell’aula bunker appositamente realizzata nell’area industriale di Lametia Terme, ha preso il via il secondo più grande processo alla criminalità organizzata dopo quello a Cosa Nostra del 1986, con 355 imputati, 400 avvocati, 900 testimoni.

Stavolta c’è la ‘ndrangheta alla sbarra: quella legata al boss Luigi Mancuso; quella diventata con gli anni la più potente tra le mafie, avviluppando tra i suoi tentacoli il nostro paese ed espandendosi anche nell’altro continente; quella che coinvolge politici locali, funzionari pubblici, poliziotti e imprenditori; quella che 58 pentiti hanno deciso di sfidare, aiutando la giustizia a ricostruirne le ramificazioni e gli affari illegali.

E c’è un uomo, lodevole e solo: il Procuratore Nicola Gratteri, da anni impegnato a rimestare in quella feccia, ad operare in ambienti ostili, tanto da aver dovuto stravolgere la propria vita, sotto scorta da trent’anni, mettendola a rischio e senza peraltro aver mai cercato la notorietà, nonostante l’indiscussa pregevolezza del suo lavoro. Un uomo di giustizia, costretto amaramente ad ammettere che “finché indaghi su nomi e cognomi noti della ‘ndrangheta tutti ti dicono che sei bravo, che hai coraggio. Ma se vai a toccare i centri di potere oliati che si interfacciano con la ‘ndrangheta e la massoneria deviata allora diventi scomodo. E cominci a dare fastidio”. Un uomo che tuttavia il suo compito continua a portarlo avanti con impegno e fatica, fedele anche lui ad un giuramento: “di osservare lealmente le leggi dello Stato e di adempiere con coscienza i doveri inerenti al mio ufficio”.

Eppure c’è stato bisogno del tam tam partito dai social (una volta tanto degni di assurgere al ruolo di mainstream) perché questa notizia ricevesse attenzione, perché un anonimo lasciasse partire da chissà dove un breve messaggio che - ricordando i numeri di questo processo e la sua importanza e riportando le parole dello stesso Procuratore Gratteri che, riferendosi all’aula bunker (ed alludendo anche ad altro), la definisce un “simbolo di tecnologia e legalità, a dimostrare che in Calabria, se si vuole, tutto si può fare” - così conclude: “la cosa sconcertante è che nessun Telegiornale, nessun giornale, nessun politico di ogni colore, abbia speso una sola parola di sostegno su questo straordinario uomo che da solo sta sfidando la ndrangheta.”

Che ognuno, allora, faccia la sua parte nel ricordare che anche il nostro Stato è impegnato nelle sue rivoluzioni, non sempre comode, non sempre evidenti, e che ci sono tanti uomini e donne di Giustizia schierati in prima fila per sconfiggere mafie, interessi contraffatti e malaffare, anche quando il loro lavoro resta notizia di file molto più arretrate.

“Che dio li aiuti!” è un augurio che merita di completare anche il loro giuramento.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata
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