3 ottobre 2020

Una storia di Covid

Autore: Ester Annetta
L’ultima volta che aveva abbracciato le sue due figlie era stato a Natale.

L’avevano trascorso insieme, a Roma; poi lui era tornato a Lecco, dove vive con la sua compagna da qualche anno, da quando è andato in pensione.

A fine marzo, quando già l’Italia viveva reclusa per il lockdown, quel temibile nemico invisibile che, allargando i contagi a macchia d’olio, al Nord aveva già mietuto centinaia di vittime, era andato a trovarlo.

S’era annunciato con appena qualche linea di febbre, un sintomo evidentemente comune ad ogni sindrome influenzale, se non fosse stato che di lì a poco, l’aria aveva cominciato a mancargli, il respiro s’era fatto sempre più affannato, il fiato sempre più corto.

Era stato allora che s’era allarmato.

Al pronto soccorso per prima cosa gli avevano fatto un prelievo, allertati dalla sua condizione di microcitemico. I valori erano apparsi subito alterati in maniera preoccupante e, perciò, era stato immediatamente disposto il ricovero.

Erano i giorni in cui gli ospedali erano al collasso, con terapie intensive sature, posti letto esauriti, medici ed infermieri impegnati in turni di lavoro che non avevano inizio né fine.

A Lecco di posti non ce n’erano già più e, dunque, lo avevano spedito ad Erba… “Da Rosa e Olindo”, ironizza ora che è tutto passato….

È iniziato così il calvario di Alessandro, 66 anni, ex insegnante di scienze motorie e attore per passione. In quest’ultima veste l’ho conosciuto una decina d’anni fa, sulle tavole d’un palcoscenico su cui portavamo in scena uno spettacolo di beneficenza.

L’ho rivisto l’altra sera, ad un rendez-vous casalingo della compagnia, diviso prudenzialmente in due parti – aperitivo e cena, con relativa turnazione dei partecipanti – per evitare il rischio di un “assembramento domestico”.

È tornato a Roma per qualche giorno, per riabbracciare i suoi cari dopo l’esilio dei mesi scorsi e quel passaggio all’inferno che adesso ha bisogno di raccontare, per esorcizzare una paura che ancora non ha dimenticato e che, forse, mai passerà.

“Quando sono arrivato in ospedale ad Erba – esordisce Alessandro - non mi hanno portato subito in reparto, ma sono rimasto nella tenda Covid, quella del triage. Le mie condizioni erano precipitate: ero debole, semincosciente ed affamato d’aria. Di quel tempo, che non so quanto sia durato, ho solo brandelli di ricordi: un infermiere che mi domanda quanti anni ho - poiché ha l’ingrato compito di scegliere a chi portare cure in base alla speranza di vita concessagli dall’età – ed un dottore che mi dice ‘ora facciamo la seconda sacca’, riferendosi alla trasfusione che mi avrebbe salvato la vita. In reparto ci sono arrivato dopo qualche giorno, quando “fortunatamente” (è brutto dirlo, lo so) un signore è morto e mi hanno ceduto il suo letto.”

Diciotto giorni è durata la degenza di Alessandro: un periodo breve dopotutto, a guardarlo oggi, con la lente della distanza. Ma allora era un buco nero, un non luogo di spazio e tempo senza coordinate né riferimenti, un’ unica, lunghissima notte buia, scandita solo da lamenti, ordini concitati, scalpiccio di passi veloci e dal suono d’un respiro amplificato, ancora troppo corto.

“Non avevo con me un telefono – prosegue Alessandro – né altri vestiti oltre quelli con cui ero arrivato. Ogni giorno i medici facevano una telefonata alla mia compagna, per ragguagliarla sulle mie condizioni, mentre un gruppo di volontari aveva preso contatti con i familiari dei degenti offrendosi di far loro recapitare indumenti puliti per il cambio. Solo parecchi giorni dopo il ricovero, verso la fine, ho potuto chiamare a casa col cellulare che un mio caro amico era riuscito a farmi avere attraverso mille peripezie. Non dimenticherò mai quella prima telefonata, bellissima e straziante al tempo stesso: avrei voluto chiamare tutti, ma non avevo abbastanza fiato. Così ho scelto di parlare con la mia compagna che, con straordinaria prontezza, ha messo la chiamata in condivisione con le mie figlie, perché potessero sentirmi a loro volta: mai sentirmi chiamare forte “Papà!” mi era sembrato così bello. Il resto sono state solo lacrime. Tutto quello che accadeva fuori, che so, non è un mio ricordo ma il mosaico che ho ricostruito con i racconti di chi mi aspettava a casa, in quelle lunghe giornate fatte di nient’altro che dell’attesa d’un bollettino quotidiano da cui dipendevano umori e speranze.”

Non era solo il male fisico a tormentare Alessandro, quella fame d’aria e quel mal di testa così lancinante da averlo portato più d’una volta ad affacciarsi ad una finestra per valutare se il salto fosse sufficiente a spegnere per sempre quel tormento e frenato solo all’ultimo momento dal pensiero delle sue figlie. C’era anche il dolore per i suoi cari, la pena della solitudine e della lontananza, ed il pensiero per la sua compagna, rimasta sola in casa, chiusa in una stanza, mentre nell’altra sua madre, morta per aver mancato l’appuntamento salvifico con una chemio, giaceva sigillata in un sacco, in attesa che qualcuno venisse a prenderla e la portasse via chissà dove, senza un funerale, senza una croce.

Era sabato santo quando un dottore aveva comunicato ad Alessandro che il primo tampone, fatto a distanza di quattordici giorni dal ricovero, era negativo. Bisognava farne un altro, per verificare che non si trattasse di un falso. “Il tampone non è doloroso – dice Alessandro - ma è davvero tanto fastidioso. È il meno, però, dopo tutto ciò che è stato”.

Lunedì di pasquetta, Alessandro è seduto sul suo letto; sbuccia un arancia, alla fine di quel pranzo che non sa affatto di festa. Eppure è il giorno che segue la Resurrezione, quello in cui un Angelo l’annuncia ai discepoli. È un giorno di rinascita, nella visione cattolica; è il ritorno alla vita anche per Alessandro, perché è proprio in quel momento che entra uno di quegli angeli senza volto - che non potrà mai riconoscere se mai un giorno lo rincontrasse per strada, bardato com’è nella sua tuta, celato da visiera e mascherina - annunciandogli che anche il secondo tampone è negativo e, dunque, può tornare a casa.

È qui che la voce di Alessandro – sicura e limpida finora – si spezza.

Si porta d’improvviso le mani sul viso e si scioglie in un pianto che, ancora adesso, sa di liberazione, di vittoria e di gratitudine.

Nei suoi occhi - che hanno imparato a sorridere sopra la mascherina – vaga ancora l’ombra di ciò che è stato: le membra senza forze, l’aria che manca, le tempie pulsanti e il dolore d’una ferita profonda, tracciata nella sua anima dalla disperazione, dalla solitudine, dall’impotenza.

Una luce nuova però li attraversa: brilla di commozione e di gioia per una vita riconquistata grazie a volti e mani di sconosciuti cha hanno anteposto l’umanità e la dedizione al prossimo ad ogni altro bisogno e che hanno gioito, applaudendo al suo passaggio come legioni di fanti vittoriosi, il giorno in cui ha lasciato l’inferno per tornare a casa.

Alessandro è un sopravvissuto. Ora sa quanto vale la vita.

Possa la sua storia essere di monito alla spavalderia di quanti credono che portare una mascherina sopra o sotto il naso non faccia differenza e che “il virus è diverso da com’è stato raccontato”. Non sanno che è anche peggio.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata
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