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Zaini da guerra

Autore: Ester Annetta
L’antefatto di quanto qui si tratta ha un’origine ben precisa. È datato 2014 e coincide con la sottoscrizione di un Protocollo d’intesa (poi rilanciato anche nei governi successivi) tra gli allora ministri italiani dell’Istruzione (Giannini) e della Difesa (Pinotti), volto a stabilire una stretta collaborazione tra le Forze Armate e le Istituzioni scolastiche e declinato in diverse modalità: visite guidate, stages di Alternanza Scuola-Lavoro (gli odierni PCTO) presso caserme e altre strutture militari, lezioni su varie tematiche tenute in classe da polizia e carabinieri. Persino corsi di inglese, informatica, prevenzione del bullismo e del consumo di droghe, gestiti da corpi speciali quali i Marines, come di fatto poi concretamente sperimentato in alcune scuole vicine alla base militare statunitense di Sigonella, in Sicilia.

Più avanti c’è stata anche la presentazione di un disegno di legge (ora silente) sull’estensione a 40 giorni della «mini-naja volontaria», indirizzato a giovani tra 16 e 25 anni con la promessa incoraggiante, tra l’altro, di incentivi (quali: punti aggiuntivi per la Maturità, per l’Università e per i concorsi pubblici) per chi avesse aderito. Il tutto presentato come “esperienza formativa per insegnare ai giovani il significato dell’amore per la Patria”.

Ancora oltre – e siamo a febbraio del 2023 - c’è stata l’alzata d’ingegno del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri che, secondo quanto riportato da “La Stampa” (ma da lui smentito), aveva lanciato la proposta di organizzare un tavolo di confronto sull’insegnamento del tiro a segno nelle scuole, con l’obiettivo educativo ultimo di fornire nuove risorse alle Forze Armate e Forze di Polizia.
Riguardo a tali variegate iniziative e proposte era già, in primis, montata la protesta di docenti e genitori, mossi dalla preoccupazione di un travisamento del ruolo della scuola, della quale - anche sulla scorta delle "Linee guida sull’educazione alla pace e ai diritti umani", firmate nel 2007 dall’allora ministro dell’Istruzione Fioroni – si rendeva invece necessario ribadire il compito di contribuire a sviluppare la cultura della pace, della nonviolenza e della tutela dei diritti umani, mediante l’educazione alla prevenzione dei conflitti e alla loro trasformazione in varianti non belliche.

A marzo di quest’anno, infine, è stato costituito l’“Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole”, con lo scopo di operare «una decisa e costante attività di denuncia di quel processo di militarizzazione delle nostre istituzioni scolastiche già in atto da troppo tempo nel nostro Paese».

Di fronte al timore che le scuole diventino sempre più “terreno di conquista di una ideologia bellicista e di un controllo securitario che si fa spazio attraverso l'intervento diretto delle forze armate” che sono presentate come “risolutive di problematiche che pertengono alla società civile”, l’Osservatorio – come si legge nella sua presentazione – sostiene che "Smilitarizzare le scuole e l'educazione vuol dire rendere gli spazi scolastici veri luoghi di pace e di accoglienza, opporsi al razzismo e al sessismo di cui sono portatori i linguaggi e le pratiche belliche, allontanare dai processi educativi le derive nazionaliste, i modelli di forza e di violenza, l'irrazionale paura di un "nemico" (interno ed esterno ai confini nazionali) creato ad hoc come capro espiatorio. Smilitarizzare la scuola vuol dire restituirle il ruolo sociale previsto dalla Costituzione italiana".

Le preoccupazioni espresse riguardo al rischio che iniziative come quelle dianzi illustrate possano tradursi in strumenti per agevolare tentativi di indottrinamento bellico non sono evidentemente infondate laddove siano attuate con modalità che realmente vadano a minare un’idea di scuola che, come auspicato da don Milani, deve essere luogo di crescita di coscienze libere e fedeli ai valori del rispetto e della dignità di ogni persona nonché della vita, in ogni sua forma; in quanto tale, dunque, incompatibile con la logica bellica e dell’uso delle armi come strumento di risoluzione dei conflitti.

Ma è questa una valutazione che dev’essere compiuta senza eccedere in generalizzazioni, piuttosto compiendo un’attenta disamina dei singoli casi che valga a distinguere la minaccia concreta dal rischio solo presunto e non fondato.

È questa la riflessione da farsi di fronte al recente “scandalo” - ed alla conseguente protesta, condotta proprio dal neonato Osservatorio contro la militarizzazione nelle scuole – relativo alla campagna promozionale con cui la nota casa Giochi Preziosi ha distribuito la nuova linea di zaini scolastici marchiati con i loghi di corpi militari: Esercito, Folgore, Alpini.

Il casus belli (è proprio il caso di dirlo!) è scaturito, soprattutto, dall’utilizzo a scopo promozionale di slogan mutuati dal linguaggio militare: “Tutti sull’attenti!” e “Per sentirsi sempre in missione”. Un linguaggio insidioso, inadeguato all’utenza cui sono destinati gli articoli che reclamizza e ritenuto – sempre secondo l’Osservatorio – in linea con una ideologia militare e militarizzante che rispecchia il clima dell’attuale governo.

Orbene, si può essere d’accordo nel sostenere che, in ambito educativo e formativo, la priorità debba essere – secondo quanto peraltro statuito dalla la Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza - quella di “preparare pienamente il fanciullo ad avere una sua vita individuale nella società ed educarlo nello spirito degli ideali proclamati nella Carta delle Nazioni Unite, in particolare in uno spirito di pace, di dignità, di tolleranza, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà”. Di conseguenza, è lecito bandire ogni iniziativa che anche in maniera indiretta (o subdola) possa inculcare in piccole menti la fascinazione o il richiamo verso la cultura e le pratiche belliche, soprattutto laddove esse siano prospettate in un’ottica offensiva piuttosto che difensiva, in netto contrasto con un chiaro precetto della nostra Costituzione (art.11).

È, tuttavia, abbastanza evidente che ci si debba attenere ad una valutazione neutrale, capace di scindere l’oggetto veicolato dallo strumento veicolante. E, dunque, se quest’ultimo risulta inadeguato (nello specifico: gli slogan usati per pubblicizzare il prodotto) lo stesso non può dirsi per il primo (il prodotto in sé) che, spogliato dell’ideale che ad ogni costo vuole associarglisi, non resta che un oggetto su cui campeggia un logo che non è altro che una connotazione grafica senza alcun’altra implicazione.

Del resto anche noi boomer (lasciatemelo dire, sullo strascico di quanto recentemente ho scritto) siamo stati attratti, da adolescenti, dall’abbigliamento militare, quello mimetico perlopiù (le ricordiamo tutti le giacche chiazzate!) che si acquistava nei mercatini di periferia solo perché rispondeva ad una moda del momento; tuttora i famosi anfibi Dr Martens – originariamente prodotti dalla R. Griggs & Co. di Wollaston, in Inghilterra, e destinati all’esercito britannico durante la prima guerra mondiale – sono calzature ampiamente diffuse tra i giovani (ragazze soprattutto), ma esclusivamente per ragioni di marchio e tendenza, non certo perché incarnano un’ideologia.

Sarebbe perciò più prudente, di fronte a certe questioni, riconoscerne la banalità e ricondurle entro margini più contenuti, oltre i quali non si profili la pretesa di individuare significati ridondanti rispetto al significante.

Da questa prospettiva può allora riconoscersi che la scelta di uno zaino di foggia militare - simile a tanti altri di analogo richiamo, su cui però non è chiaramente impresso alcun logo specifico - non basta di per sé a porre un’etichetta, a designare una ideologia, né può considerarsi un veicolo di dottrina bellica. È un oggetto di moda o di culto (o talvolta soltanto il più economico) né più né meno di quanto, in altri tempi, lo siano stati le borse di vera tolfa o la Smemoranda.
 © FISCAL FOCUS Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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