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Una cosa in comune di certo ce l’avevano Ilenia, Laura e Peter: un album di foto – poco importa se di carta o elettronico – che li ritraevano sorridenti.
Ilenia di certo sorrideva il giorno del suo matrimonio con Claudio; le loro mani strette nel pronunciare una reciproca promessa di fedeltà, solidarietà e rispetto; gli sguardi carichi di felicità.
Laura e Peter sorridevano con il piccolo Benno appena nato tra le braccia, nell’atto d’avvolgerlo in un manto di cure e amore, che, nel tempo, si sarebbero adattate alla sua crescita ed ai suoi bisogni ma mai sarebbero mutati di significato e di intensità.
Un album di foto è spesso la cosa più struggente e falsa che ci sia.
Raccoglie una selezione di effimeri momenti felici, sorrisi, frammenti di allegria e spensieratezza strappati a mosaici che, spesso, nel loro insieme, rappresentano invece realtà ben diverse. Sono l’illusoria vetrina attraverso cui si osservano verità artefatte: volti atteggiati ad allegria quando da sorridere non ce n’è affatto, contesti felici che altro non sono che luminose facciate oltre cui si celano cupe verità.
E purtroppo quelle tormentate verità a volte emergono nella maniera più drammatica ed inattesa, deflagrano senza preavviso, fornendo solo quando è ormai troppo tardi la chiave di lettura di segnali che non s’erano colti.
Per chi assiste al dramma consumato – parenti, amici, conoscenti e gente comune – s’apre allora il campo degli interrogativi, delle ipotesi e del giudizio; per i colpevoli, quello del rimorso e del pentimento, ma solo quando, smontati gli alibi e stretti ormai nell’angolo, non possono far altro che confessare.
Le storie di Ilenia, Laura e Peter, hanno anche questo in comune: la fredda lucidità d’un assassino, la sua disinvoltura nel sostenere il ruolo dell’innocente finché il cerchio delle indagini non s’è stretto, la mirabolante capacità di cambiare copione, simulando errore o pentimento, quando ammettere la propria colpevolezza è apparsa la cosa più conveniente da fare.
Non si tratta certo d’una dinamica inconsueta: la carta della preterintenzionalità - che ha tentato di giocarsi Claudio Nanni, l’ex marito di Ilenia Fabbri, dichiarando che il suo sicario avrebbe dovuto solo spaventare la donna e non ucciderla – è un goffo e plurisfruttato tentativo per poter veder ridotte le proprie responsabilità; così come il “crollo” psicologico di Benno Neumair - seguito al ritrovamento del cadavere di sua madre, Laura Perselli, che lui stesso aveva tentato di far sparire dopo averla strangolata, insieme al padre Peter – non è altro che lo stratagemma di ripiego ad un infruttuoso tentativo di negazione e rimozione, destinato a far da trave all’architettura d’una “precarietà mentale” che tenterà – anche in questo caso – di alleggerire la colpevolezza.
Ma come si può ambire a ricevere sconti, pretendere di ingraziarsi il giudizio della società prima ancora che quello dei tribunali quando l’efferatezza con cui s’è ordito e poi tessuto un delitto è contraria essa stessa all’idea d’umana pietà?
Claudio Nanni ha venduto la vita di sua moglie come un Giuda, per ventimila euro e un’auto; il suo degno compare, quel Pierluigi Barbieri che ha materialmente eseguito l’omicidio, ha evidentemente ritenuto che quella somma fosse equa, sufficiente a lavargli la coscienza (ammesso che ne abbia una) dal peso d’un delitto, trattato così alla stregua d’un comune lavoro di falegnameria o di idraulica. Non sarebbe dovuto uscire dalla casa di Ilenia senza averla uccisa, per poi simulare un furto finito in tragedia: questa era la consegna che aveva ricevuto dal suo mandante, stufo di quella fastidiosa ex moglie che continuava a chiedergli soldi e che non era riuscito a rabbonire nemmeno con le botte ed i maltrattamenti.
Il piano, studiato al dettaglio, aveva persino previsto come poter rimuovere i chiavistelli con cui Ilenia era solita chiudere la porta di casa dall’interno e che avrebbero altrimenti impedito al sicario di entrare, benché munito di chiavi: Arianna, la figlia di Claudio e Ilenia, doveva diventare una pedina di quel disegno criminale, una complice involontaria, del cui coinvolgimento il padre non si sarebbe fatto scrupolo. Quella mattina sarebbe perciò passato a prenderla presto, con la scusa di portarla a comprare una macchina, così che, uscendo, la ragazza avrebbe rimosso i chiavistelli lasciando la porta libera.
Benno Neumair ha avuto lo stesso sangue freddo. Ha confessato d’aver prima strangolato il padre con una corda, al culmine dell’ennesima discussione per motivi di soldi ed anabolizzanti, e di aver fatto lo stesso con la madre, rientrata a casa poco dopo l’omicidio del marito.
Si è poi caricato in spalla i cadaveri dei genitori fino alla macchina parcheggiata davanti casa e, dopo essersene disfatto, è tornato a pulire a fondo la scena del delitto, utilizzando persino acqua ossigenata per cancellare le tracce sul pavimento. Nei giorni seguenti ha ripreso le sue abitudini di sempre – gli allenamenti e persino l’estetista – come se nulla fosse.
I parenti di Benno – lo zio e la sorella in particolare - non credono al suo pentimento, subentrato dopo aver reso la sua confessione di colpevolezza; la lucidità con cui ha agito nell’inscenare una serie di depistaggi, nel confezionarsi gli alibi, nell’occultare i cadaveri dei genitori contrastano con quei sensi di colpa dichiarati.
“Il 4 gennaio” — scrive Madè Neumair in una lettera inviata tramite il suo avvocato alla stampa – “ho provato sulla mia pelle che il bene non sempre vince il male, che l’amore di una mamma e di un papà a volte può non bastare, che le parole giuste spesso non ci sono, che nessuna possibile condanna potrà mai compensare quello che in poche ore mi è stato tolto a mani nude. Credo ancora fermamente che la verità possa e debba vincere.”
“Il bene non sempre vince il male”.
Il male, anzi, è a volte la metamorfosi del bene.
Le promesse di fedeltà, solidarietà e rispetto che un giorno Claudio e Ilenia s’erano scambiati, si sono trasformati in risentimento, odio, vendetta, il motore di un delitto ampiamente premeditato, che pur non avendo lasciato nulla al caso, non s’è rivelato tuttavia perfetto;
il caldo abbraccio con cui la mamma ed il papà avvolgevano Benno-bambino si è trasformato nella stretta d’una corda con cui Benno–non-più-bambino ha soffocato il loro respiro, le loro premure, le loro preoccupazioni per le sue intemperanze.
Si, è vero: la verità deve vincere.
E la giustizia deve fare la sua parte.