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Fondata sul lavoro

Autore: Ester Annetta
Forse tra qualche tempo, con un macabro gioco di parole, potrà essere ricordato come “il martedì nero delle morti bianche”, ammesso che il suo triste primato non venga frattanto superato: il 21 giugno scorso sono state ben quattro le vittime cadute sul lavoro.

Numeri, destinati ad alimentare le statistiche spesso senza neppure avere un nome.

Non ha un nome, infatti, “l’operaio” 58enne – com’è stato genericamente indicato negli striminziti trafiletti che hanno riportato la notizia – deceduto sui binari della linea ferroviaria lenta nei pressi di Città della Pieve, per essere stato travolto da un treno sopraggiunto mentre stava lavorando sulle canaline a lato dei binari. Sono precisi i dettagli dell’incidente, come sono stati precisamente indicati a poca distanza di tempo dall’accaduto le deviazioni subite dai transiti ferroviari e le possibili soluzioni alternative di viaggio per i frequentatori della tratta – ovviamente - interrotta. Ma il nome dell’”operaio”, no.

Anonima è pure rimasta la vittima dell’incidente di Legnago: stavolta - con altrettanto distacco - si tratta dell’”uomo”, 52enne, morto schiacciato da una matassa di ferro che stava scaricando da un camion nel cortile di in un'azienda che lavora il ferro.

Ha invece un nome la terza vittima, per la sua giovane età certamente – 26 anni appena – ma ancor più probabilmente per via della sua “casata”: si tratta di Marco Accordini, “figlio di importanti imprenditori vinicoli della zona Valpolicella”, morto schiacciato dal trattore che lui stesso stava guidando, ribaltatosi durante una manovra in salita nella tenuta di famiglia.

Infine la quarta vittima, “Mastro Donato” – com’era affettuosamente conosciuto dai suoi compaesani – precipitato da un’altezza di cinque metri dal montacarichi su cui stava lavorando durante l’allestimento di un ponteggio per una casa da ristrutturare.

Di lui si sa qualcosa in più: non solo il nome – Donato Marti – ma un dettaglio che dovrebbe indurci a riflettere su quelle tragedie la cui portata si amplifica quando denunciano guasti ancor più profondi di quelli già evidenti.

Le morti sul lavoro sono una piaga che non riesce a sanarsi, lo sappiamo. La questione della sicurezza sui luoghi di lavoro e dei mancati interventi per frenare le irregolarità che le imprese continuano a perpetrare si ripropone ciclicamente ogni volta che giunge la notizia di una nuova vittima o che vengono diramati i bollettini di quelle calcolate in una certa frazione di tempo.

Ma quando si apprende che Donato aveva 72 anni ed una pensione ridicola per cui, anziché fare il nonno e godersi gli ultimi scampoli della sua vita, era costretto a lavorare ancora per poter sopravvivere, entra in ballo anche qualche altra questione, etica prima ancora che giuridica.

E allora non può che essere maggiore l’indignazione, di fronte al protrarsi dell’inerzia di un sistema le cui mancanze mostrano la loro pervasività, tanto più quando si assiste allo spettacolo indegno di un ministro che da un palco elettorale veneto arringa ad un’inesistente folla (rappresentata da un unico contestatore!) sull’impopolarità del dequalificante lavoro dipendente, perché la sola formula salvifica della dignità e dell’onore è la libera impresa. Come se bastasse dirlo o agitare una bacchetta magica affinché tutti i poveri subordinati ribaltino la propria condizione in datori di lavoro di se stessi!

Il punto è che la questione ha una dimensione ben più ampia perché possa restare confinata nello spazio d’una singola piazza (benché a quel ministro una replica ben assestata sarebbe stata opportuna).

Occorrerebbe partire dalla memoria, tornare indietro nel tempo, alle idee ispiratrici dei nostri padri costituenti che, nel declinare la Costituzione, non a caso hanno contemplato il diritto al lavoro – unico tra i diritti - tra i suoi dodici principi fondamentali, ponendolo alla base della Repubblica e dell’idea stessa di democrazia.

“Fondata sul lavoro”.

Sarebbe bene tenerlo a mente di fronte a tutte le inefficienze (mancanza di puntuali criteri di controllo) ed insufficienze (previdenziali in specie) che di fatto mortificano la valenza del lavoro in tutte le sue accezioni di significato, immolandolo ad una politica di cui non dovrebbe essere vittima ma alla quale, piuttosto - secondo il dettato costituzionale - dovrebbe concretamente partecipare, anche – e soprattutto - rappresentando le proprie istanze.

Una necessità imprescindibile, laddove non voglia continuare a svilirsi, insieme al significato costituzionale del lavoro, la dignità stessa d’ogni lavoratore.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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