Gli armeni usano l’espressione Medz yeghern - “il grande male” – per indicare genericamente i massacri subiti in Turchia dalla popolazione cristiana (armeni, siro cattolici, siro ortodossi, assiri, caldei e greci) tra il 1915 e il 1916, in piena Grande Guerra. Più nello specifico, è invece allo sterminio del proprio popolo che fanno riferimento, il primo vero genocidio del XX secolo.
All’epoca di quei tristi accadimenti il termine genocidio non esisteva ancora; venne infatti coniato solo molto più tardi, nel 1944, da un giurista ebreo polacco, Raphael Lemkin (che aveva perso 49 familiari nella Shoà), e pubblicamente usato nel processo di Norimberga.
Ma che di questo si sia trattato è oggi pressoché indubbio, sebbene la Turchia continui ancora a disconoscerlo, sostenendo che le uccisioni compiute, allora, dall’impero Ottomano furono una risposta all’insurrezione degli armeni e alla necessità di difendere le proprie frontiere.
Lo sterminio del Popolo Armeno si è svolto in realtà in due tempi: il primo, datato 1894-1896 fu deciso dall’ultimo sultano turco, Abd ul-Hamid, che individuò nel popolo armeno il capro espiatorio cui addossare la colpa dei fallimenti del proprio operato e di quello dei suoi predecessori. Dispose così una serie di leggi con cui (come sarebbe avvenuto più tardi, in una sorta di ricorso storico di vichiana memoria, con le leggi razziali emanate contro gli ebrei) gli armeni vennero isolati dalla vita civile e resi reietti all’impero. Ebbero dunque luogo persecuzioni ed uccisioni, una vera e propria carneficina che fu successivamente replicata, qualche anno più tardi, quando “la questione armena” divenne un problema dei “Giovani Turchi”.
Erano, questi, un movimento politico nato alla fine del XIX secolo, inizialmente con il nome di “Giovani Ottomani” (per ispirazione alla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini) il cui intento era quello di trasformare l’Impero Ottomano in una moderna monarchia costituzionale. A tal fine avevano dunque collaborato alla stesura della Costituzione del 1876, propugnando ideali liberali. Successivamente, però, il loro orientamento aveva preso la deriva nazionalista: l’idea dei Giovani Turchi era divenuta quella di creare uno stato nazionale turco, basato dunque sull’omogeneità etnica e religiosa. Le popolazioni cristiane, che per secoli si erano organizzate in diversi millet (le comunità religiose e nazionali) dovevano perciò sparire dal territorio. Tra queste popolazioni, quella armena in particolare – che, nell’anno 301, era stata la prima al mondo a dichiarare il Cristianesimo religione ufficiale del proprio Paese e aveva successivamente sposato gli ideali dello stato di diritto di stampo occidentale - con le sue richieste di autonomia poteva costituire un ostacolo all’ambizioso progetto di creare un immenso territorio esclusivamente turco che dal Mediterraneo arrivasse fino allo Xinjiang cinese.
Quando l’8 ottobre del 1912 il Montenegro dichiarò guerra all’Impero Ottomano dando inizio alla Prima Guerra balcanica (che, pochi mesi dopo, avrebbe costretto il potente esercito turco alla resa e, col Trattato di Londra del 30 maggio 2913, alla spartizione di parte dei suoi territori agli stati della Lega balcanica: Grecia, Bulgaria, Serbia, Montenegro e Macedonia), i Giovani Turchi, nel timore che al conflitto potessero prendere parte anche gli Armeni, rivendicando così la loro indipendenza, iniziarono a mezzo stampa una campagna sistematica di diffamazione e di odio, che proseguì anche oltre, durante il conflitto mondiale, quando l’accusa divenne di cospirazione a fianco della nemica Russia. Gli Armeni vennero dunque additati come una minaccia per la sicurezza nazionale e ciò offrì l’occasione per un nuovo sterminio. Ebbe inizio la notte del 24 aprile del 1915, a Costantinopoli, con l’arresto di 500 tra intellettuali, politici, giornalisti armeni, che vennero quindi uccisi, strangolati col filo di ferro.
Poi, sistematicamente, il massacro proseguì verso Oriente, nelle terre abitate da millenni dal popolo armeno: gli uomini vennero uccisi e le donne, i vecchi e i bambini deportati nel deserto siriano, dove morirono per la fame e per la sete.
L’orrore andò ben oltre: ad alcuni bambini vennero inchiodati ai piedi i ferri di cavallo, altri vennero seppelliti sottoterra con solo la testa fuori; alle donne incinte venne aperta la pancia per vedere se il figlio era maschio o femmina; alle ragazze vergini vennero tagliati i capezzoli ed alle altre donne i seni.
Secondo una stima approssimativa, nel massacro morirono circa 1.500.000 persone.
Il governo turco non volle mai riconoscere il misfatto e ha continuato a negare che fosse mai stato perpetrato. La storiografia ufficiale turca riconduce infatti i massacri alla Prima guerra mondiale smentendo l’esistenza di un piano specifico di sterminio dell’intera popolazione armena, com’è invece stato successivamente appurato. Il solo pronunciare la parola “genocidio” in Turchia può costare diversi anni di carcere.
L’Armenia è ora un piccolo fazzoletto di terra - la Repubblica democratica armena - che, entrata a far parte dell’Unione Sovietica all’inizio degli anni ‘20, ha ottenuto l’indipendenza nel 1991.
Gli Armeni ogni anno, il 24 aprile, commemorano il massacro che ebbe inizio in quello stesso giorno del 1915 e che essi, si, senza ipocrisie, chiamano genocidio.
Nel 1996, a Yerevan, la capitale, è stato eretto il Muro della Memoria, sulla “Collina delle rondini,” dove vengono poste le lapidi con i nomi dei “Giusti per gli Armeni” e tumulate le ceneri o la terra delle tombe di tutti coloro che, di quel genocidio, hanno testimoniato o denunciato la pianificazione e l’esecuzione.
Oggi, sabato 24 aprile 2021 (sempre che nel frattempo non vi sia stato un ripensamento) accanto ad altri trenta Paesi (tra cui l’Italia) che, in questi anni, hanno già riconosciuto e ammesso il genocidio armeno, si collocheranno anche gli Stati Uniti.
Secondo quanto riportato nei giorni scorsi dal New York Times e dal Wall Street Journal, il presidente Biden – per primo tra tutti i presidenti suoi predecessori – farà questo annuncio, nel giorno della ricorrenza del 106esimo anniversario dell’inizio del massacro.
In realtà una mozione in tal senso era già stata votata a larga maggioranza appena pochi mesi fa, a fine ottobre, dal Congresso americano; a metà novembre anche il Senato all’unanimità aveva votato il riconoscimento del genocidio armeno.
Allora, il negazionista governo turco, infastidito, aveva però convocato l’ambasciatore degli Stati Uniti minacciando di chiudere la base militare di Incirlik, dove sono ospitate testate nucleari americane. Perciò, non essendo la mozione votata vincolante, l’amministrazione Trump aveva bloccato il processo di riconoscimento del genocidio, tanto più che, nell’imminenza delle elezioni, non era prudente per il Presidente (poi sconfitto) provocare Erdogan, considerata la sua presenza in Siria, in Libia e nella Nato.
Ma a Biden evidentemente le minacce non piacciono e, pur nella consapevolezza che possa essergli ribattuta – e messa in atto - quella che pochi mesi fa bastò a dissuadere il suo predecessore, ha dichiarato la sua ferma volontà, dando così alla Turchia (per prima, ma anche a tutte le nazioni) il forte segnale che le battaglie per la tutela dei diritti umani non possono arrestarsi di fronte all’arroganza di chi nega il termine “genocidio” con la stessa scioltezza con cui rifiuta quello di “dittatore”.