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Il giudice dalla scarpa bucata

Autore: Ester Annetta
Poco distante da casa mia, sul lato di un largo marciapiede d’un altrettanto largo viale, c’è una minuta stele, discreta, essenziale. Non si scorge dalla strada, ma la si nota solo se ci si passa accanto e ci si inciampa, perché in quel tratto non ci sono nemmeno vetrine che possano catturare l’attenzione e far rallentare il passo. L’incisione che riporta si legge a tratti, coperta da una corona di fiori ormai appassiti da diverse stagioni.

Il Presidente del IV Municipio - con un tempismo che non può dirsi perfetto ma che tuttavia non sminuisce l’apprezzabilità del gesto - l’ha inaugurata, con una piccola cerimonia, il 23 giugno del 2010, esattamente trent’anni dopo l’accadimento della vicenda che vi è commemorata.

Il 23 giugno 1980 è una bella mattina di sole. Poco prima delle otto, salutati la moglie e i suoi due figli, il giudice Mario Amato - 42 anni, Sostituto Procuratore della Repubblica assegnato a Roma tre anni prima, dopo aver ricoperto lo stesso ruolo a Rovereto - esce di casa per recarsi nel suo ufficio in Procura, a Piazzale Clodio. La sua Renault Simca targata Trento è dal meccanico e l’auto d’ufficio – l’unica blindata a disposizione – non può essere disponibile prima delle 9. Lui però è abituato ad arrivare a lavoro presto, e così si avvia alla fermata dell’autobus, su Viale Jonio, poco dopo l’incrocio con Via Monte Rocchetta, a circa quattrocento metri da casa sua.

Mentre attende l’arrivo del 395 (che oggi non c’è più), un uomo - Gilberto Cavallini, 29 anni - con indosso un casco scuro, gli si avvicina, gli poggia la canna di una Colt Cobra 38 dietro l'orecchio e lo uccide. Poi spara altri due colpi per aria, come un cowboy del West. Più avanti, un ragazzino di appena diciassette anni - Luigi Ciavardini - lo aspetta in sella ad una Honda 400. Insieme spariscono nel traffico della città.

Quando, poco dopo, arriva l’ambulanza ed il corpo del magistrato morto viene coperto da un lenzuolo bianco, un fotoreporter prontamente accorso scatta una foto, destinata a diventare un simbolo: da quel tragico sudario spunta una scarpa, con la suola bucata.

Quell’immagine, ancora oggi, a distanza di quarant’anni esatti, è l’emblema di un uomo probo e giusto, di un giudice che non amava i clamori e le luci della ribalta, che praticava uno stile di vita semplice ed essenziale e che, nella Roma degli anni di piombo, era stato mandato da solo come agnello tra i lupi.

Appena arrivato a Roma gli avevano infatti affidato un grosso fardello che nessun altro aveva voluto condividere con lui. Aveva ereditato 600 fascicoli dal suo predecessore, il giudice Vittorio Occorsio - ucciso nel 1976 da Pierluigi Concutelli, uno dei neofascisti capi di Ordine Nuovo - mentre indagava sui NAR, i Nuclei Armati Rivoluzionari, ed il terrorismo nero.

Lasciato solo dai suoi superiori e contrastato dal collega giudice Antonio Alibrandi (padre del terrorista dei NAR Alessandro), in una Procura omertosa - allora definita non a caso dalla stampa, con richiamo ad un’indagine di Maigret, un “porto delle nebbie” - Amato aveva, pezzo dopo pezzo, assemblato le tessere di un mosaico che evidenziava le connessioni tra il terrorismo nero e rosso, il potere politico e finanziario, la massoneria, la banda della Magliana. E per questo era divenuto un uomo scomodo ed un bersaglio per i neofascisti.

Ne era consapevole, tanto che da qualche tempo, nei mesi precedenti al suo assassinio, aveva cominciato ad essere guardingo, attento nei suoi spostamenti e armato. Tranne quella mattina del 23 giugno, perché avrebbe preso l’autobus e non sarebbe stato prudente portare con sé la pistola.

La morte era perciò arrivata alle sue spalle, alle 8.05 di quel mattino d’estate.

Quella stessa sera il suo assassino, raggiunti a Treviso gli altri camerati Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, avrebbe festeggiato con ostriche e champagne la sua esecuzione, raccontando l’emozione provata nel vedere la vampa di fuoco della pistola che spazzava via i capelli del magistrato in quell’istante feroce di passaggio dalla vita alla morte.

Il proclama di quegli arroganti, fanatici, giustizieri sarebbe giunto di lì a poco su un volantino di rivendicazione: “Oggi 23 giugno 1980 alle ore 8.05 abbiamo eseguito la sentenza di morte emanata contro il sostituto procuratore Mario Amato, per le cui mani passavano tutti i processi a carico dei camerati. Oggi egli ha chiuso la sua squallida esistenza imbottito di piombo. Altri, ancora, pagheranno”.

Mario Amato, quell’uomo mite e solo, è stato un testimone ed un martire della legalità, al pari di altri giudici i cui nomi sono meno sbiaditi del suo negli archivi della nostra memoria.

Non ha giornate dedicate ma, al più, una via intitolatagli in un quartiere di qualche città - dove i più forse neppure ricordano chi sia - ed una semplice stele, umile e modesta com’era lui, spuntata tardivamente sul marciapiede su cui la sua vita è stata recisa un giorno di quarant’anni fa.

Quel giudice con la scarpa bucata, tanto dedito al suo lavoro da non aver neppure il tempo di portarla a riparare, è un frammento della nostra storia, che, ogni tanto, faremmo bene a ripassare.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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