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Il giudice ragazzino

Autore: Ester Annetta
La mattina del 21 settembre 1990, come tutte le mattine, un giovane magistrato – già sostituto procuratore presso il tribunale di Agrigento e da poco divenuto giudice a latere - percorreva a bordo della sua Ford Fiesta amaranto la SS640 tra Agrigento e Caltanissetta per recarsi a lavoro. Era partito da Canicattì, dove viveva con i suoi genitori, e, come d’abitudine, aveva iniziato la giornata con una sosta in una chiesetta fuori mano dove poteva pregare “in incognito” e in solitudine. Era un uomo pio, sostenuto da una fervente fede, convinto che giustizia e carità si contemperassero e dovessero perciò essere, insieme, il sostegno della condotta umana.

Viaggiava senza scorta, perché – com’era solito ripetere - non voleva che altri, padri di famiglia, dovessero pagare per causa sua. Sapeva, infatti, d’essere nel mirino della mafia per via di indagini che aveva condotto da sostituto procuratore e che lo avevano portato a scoperchiare quella che, di lì a poco, sarebbe esplosa come la Tangentopoli siciliana, nonché, come giudice a latere, per essere stato tra i primi magistrati siciliani ad applicare la legge Rognoni-La Torre, la n. 646/’82, che aveva introdotto per la prima volta nel codice penale il reato di “associazione di tipo mafioso” – l’art. 416-bis - e la conseguente previsione di misure patrimoniali ablative applicabili all'accumulazione illecita di capitali.

Giunto sul viadotto Gasena della SS640, la sua auto era stata affiancata da una moto, mentre un’altra auto si era fermata poco più avanti per bloccarlo. Quattro sicari assoldati dalla “Stidda” agrigentina – l’organizzazione mafiosa in contrasto con Cosa Nostra – gli avevano sparato contro alcuni colpi d’arma da fuoco, colpendolo alla spalla. Il giovane era sceso dall’auto tentando di fuggire, correndo lungo la scarpata, verso i campi. Uno dei killer, però, l’aveva raggiunto, e gli aveva sparato sette colpi di pistola. L’ultimo l’aveva mirato in piena faccia, come a voler dire che quella bocca avrebbe taciuto per sempre. Un attimo prima di morire, quando gli assassini gli si stavano avvicinando, il giudice aveva chiesto “Che cosa vi ho fatto?”.

Quel giovane, quel servitore della giustizia, aveva solo 38 anni. Si chiamava Rosario Livatino.

Gli anniversari hanno una valenza rievocativa: riportano l’attenzione, a distanza di tempo, su uomini e vicende che sono stati simbolo di un’epoca, di un momento storico, di una lotta, quel tanto che basta a rispolverarne la memoria, prima di rimetterli da parte finché un’altra somma di anni che faccia cifra tonda non vada ad aggiungersi ai precedenti, reiterando l’intermittenza di un tributo ad un sacrificio che andrebbe invece commemorato più frequentemente, senza supporto di calendari.

Livatino, come tanti altri suoi colleghi, è morto per aver voluto assolvere il proprio compito istituzionale con onestà e scrupolo, senza scendere e compromessi o subire altro condizionamento che non fosse quello dettatogli dalla propria coscienza. E dalla fede.

Nella scarpata dove fu assassinato, venne ritrovata la sua agenda di lavoro; sulla prima pagina erano vergate le tre lettere “STD”, che significano “Sub tutela Dei”, a conferma che a Dio s’affidava, sia come uomo che nell’esercizio di quella importante e delicata funzione spettantegli in virtù del suo ruolo di magistrato, che svolgeva infaticabilmente, ostinatamente ed in silenzio, senza fame di consensi né di riflettori.

Il “giudice ragazzino” - nel cui nome e nella cui memoria è stata riconvertita di senso anche tale espressione, originariamente nata con valenza negativa per conio di un Capo di Stato convinto che “non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre indagini complesse contro la mafia e il traffico di droga” -, aveva un credo solido e potente: «Il Giudice deve offrire di sé stesso l’immagine di una persona seria, equilibrata, responsabile; l’immagine di un uomo capace di condannare ma anche di capire; solo così egli potrà essere accettato dalla società: questo e solo questo è il Giudice di ogni tempo. Se egli rimarrà sempre libero ed indipendente si mostrerà degno della sua funzione, se si manterrà integro ed imparziale non tradirà mai il suo mandato.»

La coerenza, la fedeltà, il rovesciamento dei pregiudizi sono il primo passo di ogni rivoluzione, culturale ma anche di giustizia: questa è la grande lezione che ci ha lasciato quel giovane martire, persuaso della necessità che onestà e verità siano i comandamenti fondanti dell’agire umano, perché, come disse lui stesso, «Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili.»
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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