26 ottobre 2019

Il riso amaro di Joker

Autore: Ester Annetta

Chi si aspettasse dal film di Todd Phillips un fumettone ambientato negli anni ‘70/’80, strutturato come l’antecedente della nascita di Batman, dovrà ricredersi e riconsiderare la sua pellicola – vincitrice del Leone d’oro al Festival del cinema di Venezia e, ancora oggi, a quasi due mesi dall’uscita nelle sale, regina dei botteghini – in un’ottica totalmente diversa.

Il Joker di Phillips è, difatti, una figura che ribalta completamente l’idea dell’antieroe, del nemico giurato di un paladino della giustizia, ridisegnandosi con sembianze più drammaticamente umane che, dietro il viso dipinto ed il sorriso allargato del clown, raccontano in maniera mirabile il percorso di un derelitto, intrecciandone le vicende a quelle di uno sfondo urbano e sociale che pare percorrere le sue stesse tappe.

Gotham City è sommersa da cumuli di spazzatura e invasa da ratti giganti; i cittadini sono irrequieti e sdegnati a causa di quel degrado, dal quale la disparità ed il contrasto tra la miseria e la ricchezza appaiono accentuati; Arthur Fleck, uno spilungone anoressico e tabagista, è uno di quei tanti ultimi, un numero nella schiera di quegli invisibili, vittime di depravazioni e deprivazioni.

È un folle, uno schizofrenico provato dalla vita, da un’infanzia di abusi che non ricorda ma che è probabilmente stata la causa che lo ha reso com’è; un uomo che – come dirà lui stesso in una delle sequenze del film – non ricorda di essere mai stato felice ma che, per paradosso, aspira a diventare un comico, a far ridere la gente, a dare un senso a quel nomignolo – Happy – datogli da piccolo da sua madre, che gli ha sempre ripetuto di essere nato per portare allegria tra la gente.

Arthur ha fatto sua quella convinzione e per tendere a quell’obiettivo è partito dai gradini più bassi: si traveste da clown per fare pubblicità ai negozi o divertire i bambini negli ospedali pediatrici, sognando di poter un giorno calcare grandi palcoscenici e divertire un pubblico più importante.

Intanto annota sul quaderno che porta sempre con sé le barzellette che gli vengono in mente o gli spunti offertigli dalle situazioni in cui si imbatte e che ritiene siano divertenti.
Ma in realtà non lo sono affatto.
Come non è affatto azzeccata la risata in cui spesso prorompe, perché Arthur ride fuori tempo rispetto alle batture ma, soprattutto, ride quando qualcosa lo ferisce, quando soffre, quando il dolore che prova è così grande da dover essere sfogato ad ogni costo.

E la sua è una risata sguaiata, esagerata, che gli provoca spasmi e crampi e che, puntualmente, ricurva su se stesso tramutandosi in pianto.
Quel riso finto, forzato è la sua difesa contro tutto ciò che non ha e che non è: contro le umiliazioni, i calci e i pugni che riceve, i sogni che non riesce a realizzare, l’amore che non ha.

Ed è quando tutto questo diventa insopportabile, quando il dolore travasa divenendo incontenibile che, lentamente, Arthur compie la sua metamorfosi.
Incarna con tutto il suo essere, con ogni fibra del suo corpo, della sua mente e della sua anima l’immagine del clown, della maschera che ride sopprimendo il dolore che, da quel momento in poi sarà invece lasciato libero di agire, di sfogare contro chiunque e qualunque cosa lo ferisca e lo abbia ferito, rendendolo forte, capace di prendersi tutto ciò che ha sempre voluto e mai ha avuto.
Arthur diventa un assassino, eppure non riesce ad apparire come un cattivo.
Sembra, anzi, un vincitore, un eroe, che riesce finalmente ad appropriarsi di ciò che gli spetta: il rispetto, la dignità, la sua stessa identità.

E come eroe viene osannato dalla folla, dai tanti altri derelitti che acclamano il “vigilante”, l’uomo con la faccia dipinta da clown che li ha vendicati, uccidendo tre rappresentanti dell’alta borghesia, divenendo così il protettore della classe povera contro l’indifferenza, l’arroganza, la prepotenza dei ricchi.
La città tutta, dunque, si ridesta: indossa anch’essa – attraverso i suoi “ultimi” – la maschera del clown e dà fuoco a tutto ciò che è segno di differenza e di ingiustizia.

Quando la metamorfosi è ormai compiuta, Arthur indossa definitivamente i panni del clown: diventa Joker, come l’aveva ribattezzato, deridendolo, Murray Franklin, un famoso conduttore di talk show – da sempre il suo idolo - dopo aver visto una sua esibizione in un cabaret di infimo ordine, e, scendendo a passo di danza quelle scale che, fino ad allora, lo si era visto percorrere faticosamente solo in salita, si avvia verso il suo riscatto.

È da quel momento in poi, in quel lungo finale che sfuma nel bianco indefinito dell’ultima scena, dove l’unica nota di colore è il rosso impresso sul pavimento dalle sue scarpe, che irrompe tutta la forza psicologica del dramma di Arthur/Joker, fornendo una chiave che, se da un lato fa comprendere che tanto di ciò che si è visto non è la realtà ma il frutto delle fantasie della sua mente malata, al tempo stesso lascia il dubbio sull’individuazione dell’esatto confine tra il vero e il mai accaduto.

È un’opera potente, Joker, un vero capolavoro, perché è un racconto che rompe gli schemi tradizionali del contrasto bene/male, buoni/cattivi, realtà/apparenza, rappresentando una trama dove tutto si confonde, si trasforma, si converte; dove non ci sono buoni ma solo cattivi (sfruttatori, truffatori, bugiardi) e, anzi, è proprio il cattivo principale ad essere, in fondo, il buono.

Le scene più incisive sono forti, volutamente violente e cruente; e, tuttavia, non disturbano, piuttosto si attagliano coerentemente alla misura del dramma che riportano, all’intensità del sentimento che descrivono e che trasmettono, definendo efficacemente il profilo del protagonista, soprattutto quello interiore.

La musica è un altro elemento importante e decisivo di tutta la pellicola, con due brani, in particolare, che possono dirsi colonne portanti: “Smile”, la canzone di Charlie Chaplin che fa da sfondo a “Tempi Moderni” (che, tra l’altro, si vede proiettato in un cinema in uno spezzone del film), la pellicola che racconta uno Charlot impazzito a causa dei ritmi forsennati di lavoro alla catena di montaggio, che, rimasto senza lavoro, viene additato come agitatore e sovversivo, che riceve umiliazioni o viene sfruttato ogni volta che trova un nuovo lavoro. In Joker questi stessi elementi si ripropongono, ma in una forma più esasperata, volendosi accentuare smisuratamente ma efficacemente i caratteri di un contesto ostile, aggressivo ed egoista da cui il protagonista si sente rifiutato; e “That’s life” di Frank Sinatra, che diventa quasi l’icona del film anche per i contenuti del suo testo: “alcune persone danno dei calci e calpestano i tuoi sogni/ ma io non lo permetterò, non permetterò che questo mi butti a terra/ perché questo bellissimo mondo continua a girare./ Sono stato un burattino, un bisognoso, un pirata, un poeta, una pedina e un re/ sono salito, sono sceso, sono andato oltre, sono andato fuori/ ma so una cosa:/ ogni volta che ho trovato me stesso, caduto lungo disteso/ mi sono ripreso e sono tornato in gara.”

E infine lui, Joaquin Phoenix, che non interpreta semplicemente Joker, ma diventa egli stesso Joker. È talmente immerso nel personaggio, talmente convincente, che si fatica a cogliere la scissione tra ciò che sta interpretando e ciò che è davvero, tanto quel Joker è stato da lui interiorizzato, sofferto, assorbito, tanto sia riuscito a cogliere in profondità il dramma di quell’uomo che alla fine ammette, con tragica lucidità, che la sua vita non è stata una tragedia ma una tragica commedia, in cui è stato calato in maniera stonata, tanto che ha sempre riso dove non c’era affatto da ridere.

Quel corpo smunto, quei solchi sul viso, quei nervi e quei muscoli tesi, quella risata sguaiata, quella macabra danza dicono tutto dell’interiorità del suo personaggio, rendendo superflue le parole, raccontando solo con ciò che è offerto alla vista più che con ciò che arriva all’udito.

Un’interpretazione perfetta, degna di un capolavoro com’è un capolavoro ogni opera che riesce a stravolgere i canoni, offrendo visioni opposte eppur mirabili come alternativa ai consueti, collaudati modelli.

 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata
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