Molti lo adorano, qualcuno lo detesta, per altri è un passatempo da zapping.
In un modo o nell’altro, però, dalla sua prima comparsa radiofonica fino alle dirette televisive, da settant’anni il festival di Sanremo è un appuntamento fisso per gli italiani: entra nelle loro case, crea tifoserie e fazioni sollecitando raduni rinforzati da pizza e birra e lascia in testa quei ritornelli che, per qualche giorno, diventano il ritmo da tamburellare sul volante ad un semaforo rosso o da canticchiare sotto la doccia.
Nel tempo, il Festival ha subito varie metamorfosi: dalla prima edizione del 1951, che si tenne nel Salone delle feste del Casinò Municipale di Sanremo (mentre il pubblico cenava seduto intorno a tavolini da vecchio café chantant) e contava solo tre partecipanti che alternavano la loro esibizione, passò al Teatro Ariston nel 1977, incrementando sempre di più il numero dei partecipanti, per giungere infine alla moderna distinzione tra big e nuove proposte; si sono avvicendati diversi presentatori, più o meno validi; la musica ospitata si è modificata, con l’aggiungersi al melodico delle influenze del rock e dello swing, fino ad arrivare all’odierno rap; il numero delle serate è cresciuto sempre di più, fino a diventare una vera e propria maratona che occupare quasi un’intera settimana.
Da competizione “nobile” è passato ad essere un prodotto commerciale da migliaia di euro ed una passerella su cui sfila un fitto campionario, non solo di canzoni, ma di idee, tendenze, provocazioni, intemperanze. Un caleidoscopio di immagini e colori che monopolizza l’attenzione e fa discutere per tutto il tempo della sua durata, per poi finire inevitabilmente dimenticato, fino all’anno successivo.
Eppure quest’anno qualcosa di diverso c’è stato.
Tra performance opinabili, isterie da prima-donna, imprevisti, vuoti di scena, parodie azzeccate e non, eccentricità più o meno marcate, alcuni momenti hanno deviato il consueto corso della kermesse, per lasciar spazio ad altrettante parentesi di inattesa bellezza e profonda umanità, di fronte alle quali non solo la platea, ma tutti avremmo dovuto levarci in piedi.
Il primo è stato l’ingresso in scena di Paolo Palumbo.
Sardo, 22 anni, avrebbe voluto fare lo chef. Un giorno però si accorge che non riesce più a tenere in mano la padella e un rapido ciclo d’esami gli rende il triste responso: sclerosi laterale amiotrofica – SLA – quel mostro che poco alla volta ingoia muscoli, gesti, parole, sapori e persino l’aria, lasciando però che il cervello resti vigile e lucido ad assistere al disfacimento del corpo e della vita.
Paolo è immobile su una sedia a rotelle supertecnologica, dotata di un sintetizzatore vocale che traduce i suoi pensieri in parole dal suono metallico. Solo gli occhi sono ancora in grado di muoversi e con quelli Paolo comunica.
E’ a Sanremo perché la sua canzone – che un’altra voce canta per lui – merita d’essere ascoltata, anche se non è riuscita ad accedere alla gara. Merita d’esserci, perché è un bellissimo messaggio di amore per la vita e di speranza. Merita d’essere urlata, perché chi ha la forza di non piegarsi alla mortificazione della malattia, se non è un folle è un eroe.
«Se esiste una speranza ci voglio provare. Per volare mi bastano gli occhi, sono la montagna che va da Maometto, pur restando disteso sul letto», così dice la sua canzone.
Paolo non si arrende, e con quella sua immobilità, con quegli occhi che si muovono continuamente come se fossero l’articolazione dei suoni che non può emettere, dal palco dell’Ariston dà una grande lezione di vita, che la voce metallica del sintetizzatore non priva del suo potente effetto: «Provate a immaginare che la vostra quotidianità sia improvvisamente stravolta. In Italia siamo oltre seimila ad aver fatto degli accertamenti che ci hanno catapultato in un mondo ignoto. Mio fratello ha lasciato tutto per prendersi cura di me, grazie a lui le mie paure e le mie incertezze sono scomparse. Rosario e la mia splendida famiglia mi hanno insegnato la forza, che non pensavo nemmeno di avere. La mia non è la storia di un ragazzo sfortunato ma di un ragazzo che non si è arreso. La vita non è una passeggiata”. Poi un monito che trafigge: “Vi faccio una domanda: avete usato il vostro tempo nei migliori dei modi? Avete detto tutti i ti voglio bene che volevate? Vivete a pieno le vostre vite. Nel vostro piccolo fate quanto più potete per aiutare gli altri».
Due sere dopo Paolo, è Ivan a dar un nuovo bellissimo messaggio d’amore per la vita.
E’ la sera della finale, ed è già notte fonda. Il Festival si trascina a stento verso la proclamazione dei vincitori; la resa al sonno è prossima.
Ma all’improvviso, un guizzo di bellezza lo riaccende: sul palco ci sono due ballerini, un uomo e una donna. Lui è sulla sedia a rotelle, ma il suo corpo, il suo intero essere, segue la musica e la sua compagna in una coreografia meravigliosa. A tratti è lei a sostenerlo, perché in piedi, lui, non riesce a stare; eppure conduce quella danza, marcandone direzione ed effetti, come se bastassero gli occhi e le intenzioni a guidarla, tanto che, pur restando quasi sempre raso terra, sembra che entrambi volino.
Ivan Cottini ha 36 anni e da circa dieci combatte contro la sclerosi multipla che, lentamente, sta sottraendogli vigore e capacità di movimento.
Ma, come Paolo, nemmeno lui si arrende. Ha deciso che ballerà finché quell’infida malattia glielo consentirà, perché la danza è la sua forza ed è lo strumento che ha deciso di usare per essere d’esempio a chi soffre come lui.
Ivan ha ancora la sua voce, sebbene la malattia l’abbia distorta e faccia fatica a scandire le parole. Ma è importante che quel messaggio sia lui stesso a darlo, che non lo affidi ad altri, perché è proprio quella sua voce affaticata e strana che dà maggior peso e verità alle sue parole: «La diversità è bellezza, e io ne ho fatto un’arte».
«La gente ha bisogno di storie positive piuttosto che di personaggi strapagati che si prendono il palco per mezz’ora», avrebbe detto Ivan in un’intervista rilasciata il giorno dopo.
Ha ragione. Perché anche questo Sanremo con le sue canzoni, i suoi presentatori, le sue bizzarrie passerà, scivolando sulla superficie delle menti senza aver rapito i sensi.
Gli occhi di Paolo e la danza di Ivan, invece, resteranno ben scolpiti nei cuori e nelle coscienze, come inedito e straordinario merito di un Festival che, per qualche momento, non è stato uguale a tutti gli altri.