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L’isola della speranza

Autore: Ester Annetta
C’è un frammento di terra di appena venti chilomentri quadrati di superficie – una sorta di ciabatta, lunga e piatta - che emerge dalle acque del Mediterraneo, in quel tratto dove il confine tra due continenti si confonde e diventa immaginario.

Dicono che geologicamente appartenga all’Africa, alle cui coste, in verità, è molto più vicino che alle nostre; tuttavia è l’ultimo lembo di terra italiana o, invertendo la prospettiva, l’avamposto d’Europa.

Perché sia stata chiamata Lampedusa non è ben chiaro; tante storie e leggende sono fiorite attorno al suo nome ed alla sua storia, che va indietro nel tempo, fino ad epoche lontane, che l’hanno vista contesa da antichi popoli di naviganti e conquistatori.

Di quei domini poco o nulla conserva oggi, eccetto forse la riproposizione d’un paesaggio che appare tuttora d’una incontaminata e selvaggia bellezza, di quelle che non ci si aspetta quando si pensa che è intanto diventata una delle mete turistiche più popolari ed ambite.

Ed è perciò che sorprende, incanta, rapisce.

Fuori da “’u paise” - il centro abitato, col suo porto vecchio ed il porto nuovo, gli alberghi, i negozi e i ristoranti - Lampedusa è un pianoro roccioso, brullo, grigio e creta, punteggiato da cespugli spinosi, cardi e piccoli fiori violetti che interrompono l’uniformità degli altri colori. La quiete vi regna assoluta; il silenzio è spezzato solo dal frinire sostenuto delle cicale, dallo sfrigolio dei fili dell’alta tensione che, in alcuni tratti, seguono paralleli la fettuccia di strada che l’attraversa, e dal fiato del vento, che quand’è di maestrale sembra essere la sua voce.

Dove i fianchi dell’isola non scendono a strapiombo in mare come altissimi trampolini, ci sono calette incantevoli, di sabbia fine o di scogli, davanti ad acque così limpide e cristalline da creare l’illusione che tutto ciò che vi galleggia sopra sia sospeso in aria, su una striscia di nulla che lo distacca dal fondale, come fosse una barriera invisibile che un mago sapiente ha creato per impedire di contaminare tutta la purezza visibile al di sotto dello specchio d’acqua.

Il tempo è fermo, forse anche le stagioni, racchiuse in una bolla tiepida in cui si alternano luce e tramonti. Il buio della notte rende visibili tutte le stelle, come accade soltanto nei cieli d’Africa.

Penso che chi è nato qui e vi ha vissuto tutta la sua vita, non avrà mai conosciuto la neve né mai avrà sentito il fischio d’un treno. Avrà la pelle brunita dal sole ed arsa dal quel sale che insaporisce anche l’acqua corrente nelle case; avrà imparato a riconoscere la voce del mare e l’annuncio d’un temporale, il vento e le maree. Avrà saputo delle vite altrui dai libri e dai giornali, distante e protetto dalle brutture che sviliscono il numeroso popolo della terraferma. Ma avrà mantenuto l’innocenza, il senso d’appartenenza e di solidarietà proprio delle comunità più minute, insieme a quella cordialità che sa far sentire accolto l’ospite e lo straniero.

Lampedusa è l’isola dell’accoglienza, perché è questo lo spirito della sua gente, che, a dispetto d’ogni pregiudizio, non si sente affatto violata o invasa né dai turisti né, ancor meno, dai tanti esuli migranti che vi approdano. A questi ultimi è anzi dedicata quella “Porta d’Europa” che si erge su un’altura sull’estremità più a sud dell’isola, guardando al mare, verso cui irradia i suoi bagliori di metallo e ceramica, divenendo un faro verso cui esseri umani braccati da violenze, dittature e povertà, inscatolati su imbarcazioni insicure, dirigono la loro rotta.

È il varco oltre il quale lasciarsi alle spalle un mare di disperazione per approdare in una terra di speranza, il simbolo d’un passaggio libero dai cardini e dalle sbarre del rifiuto e dell’indifferenza.

La gente di qui fa memoria; ricorda tutte le vittime dei barconi affondati, dà loro un’identità affinché non restino solo numeri su anonimi involucri sepolti nei cimiteri agrigentini.

Tra tutti, i migranti eritrei che annegarono la notte del 3 ottobre 2013 sono commemorati dalla “Nuova speranza”, il memoriale raffigurante lo scheletro di una barca avvolto da una spirale su cui sono incisi i nomi di Sbdelkadr Raka Gimie, Bereket Kidane, Jemal Salih e delle altre 363 vittime del più drammatico dei naufragi europei, che, per una strana ironia della sorte, si consumò a poche centinaia di metri dalla spiaggia più bella d’Europa: la Spiaggia dei Conigli.

Domenica scorsa a Lampedusa si votava per le elezioni amministrative; nelle sere precedenti si erano susseguiti i comizi dei sostenitori delle due liste in lizza.

Il candidato favorito (che ho poi appreso essere risultato vincitore), appartiene ad una lista civica: “Qui i partiti non attecchiscono” - mi ha spiegato Daniele, il giovane titolare del servizio noleggio auto mentre mi riaccompagnava in aeroporto - “specialmente se qualcuno si presenta con la Lega, è sicuro che non lo vota nessuno”.

Mi è sembrato una sorta di sublime contrappasso, l’affermazione dell’impronta di umanità e solidarietà di un popolo minuscolo che sottintende la priorità della speranza contro qualunque manifesto o bandiera che tenti di negarla.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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