6 febbraio 2021

La rotta balcanica

Autore: Ester Annetta

A differenza di quanto tale nomenclatura potrebbe evocare a prima vista, non si tratta di una via di commercio, di quelle che, storicamente, indicano linee di scambio tra paesi civili destinate all’accrescimento delle rispettive economie; va invece - più drammaticamente – accostata all’idea d’un tragitto impervio, a tratti infernale, percorso da poveri esseri che, condannati ad un incolpevole esilio, un’ingiustificata e scandalosa indifferenza collettiva abbandona agli stenti, alla violenza e al dolore.

Più attenti, da sempre, a vedere, giudicare e discutere sulla questione degli sbarchi in Sicilia o in altri porti del nostro Mediterraneo, noi italiani ci siamo dimenticati, evidentemente, che le migrazioni di popoli perseguitati e derelitti seguono anche altre rotte, persino incredibilmente a noi più vicine.
Quella balcanica è, appunto, uno di quei singolari tragitti, attraverso cui esseri umani variamente assortiti - giovani, anziani, intere famiglie con bambini – e di diversa nazionalità (pachistani, afghani, iracheni, iraniani, siriani) si incamminano per arrivare in Europa - o, meglio, nell’Unione Europea - nella speranza che, una volta varcatene le porte, possano richiedere asilo e sperare in una sorte meno tragica.

E, invece, capita che si vedano respinti dalla polizia di quegli stessi paesi dove cercano salvezza - la Croazia, la Slovenia e persino l’Italia – che li ricacciano letteralmente indietro, lasciandoli come anime sospese nel limbo di campi profughi dove le condizioni di vita sono estremamente disumane: sovraffollamento, strutture igieniche e sanitarie pressoché inesistenti, aria malsana in cui si fondono odori di cibo e di latrine e in cui si diffondono i suoni confusi di lingue, pianti e preghiere.
Ciononostante questa è l’ipotesi migliore che possa loro capitare; la peggiore è l’essere anche vittime del brutale accanimento delle guardie, carnefici impuniti che si abbandonano ai più vili degli istinti, soffocando ogni sentimento d’umana pietà. Violenze, stupri, torture diventano allora il nuovo bagaglio con cui quei poveri perseguitati ripercorrono il loro cammino a ritroso, privati persino di quel poco che avevano, oltre che della dignità.

Quanto sappiamo davvero della rotta balcanica e dei suoi viandanti?
Dovremmo anzitutto sapere che il punto di partenza - e di forzato ritorno - di quei fuggiaschi è la Bosnia, che è fuori dalla cortina dell’UE; il miraggio da raggiungere è appena poco più in là – Croazia, Slovenia, Italia – che invece in quella cortina sono racchiuse e, dunque, proclamano diritti ed assicurano protezione.
A parole, in questo caso.

Perché provenire dai campi a ridosso del confine balcanico dell’UE è una sorta di “marchio di riprovazione” e possedere il tesserino identificativo con i timbri dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati o dall’Agenzia Onu per le migrazioni non è un lasciapassare ma una chiara indicazione di provenienza dalla Bosnia che, pertanto, facilita alla polizia di quei Paesi il respingimento e la riconsegna.

Ecco perché tra i cespugli e nei boschi a ridosso degli ambiti confini se ne trovano gettati innumerevoli.

I migranti chiamano “game” – gioco – questo loro tentativo di passaggio, perché è una sfida, una scommessa, riuscire ad arrivare “dall’altra parte” e avere in premio una domanda d’asilo. Ma quando il gioco non riesce, la pena sono i lividi, le bruciature, le sprangate, le sevizie. E le falangi necrotizzate delle dita dei piedi che si staccano e si perdono nella neve, in cui si è costretti a camminare scalzi, perché le guardie “requisiscono” anche le scarpe.
I respingimenti operano a catena: spesso partono dal confine italiano; la polizia di frontiera di Trieste e Gorizia rimanda i migranti a quella slovena, che li rimanda a quella croata, che li ricaccia in Bosnia. I militari italiani non alzano le mani, non praticano alcuna violenza, ma sanno perfettamente quale trattamento i loro omologhi riservano ai respinti.

Dovremmo poi sapere che essere ricacciati significa tornare a Bira, Lipa, Miral, Sedra: sono i nomi dei campi d’accoglienza bosniaci in cui i migranti richiedenti asilo e rifugiati “vivono”, verbo che come non mai suona ipocrita, ingannevole, e andrebbe corretto dal prefisso “sopra-“ in luoghi dove, oltre alla fame e al freddo, le violenze e gli abusi della polizia di cantone sono all’ordine del giorno.
E non è ancora tutto.

Bisognerebbe sapere anche che il 30 settembre 2020 il campo di Bira (alla periferia della città di Bihać, capoluogo del cantone Nord-occidentale della Bosnia ed Erzegovina Una-Sana) è stato sgomberato per iniziativa del governo cantonale (senza coinvolgimento di enti internazionali né del governo centrale di Sarajevo e senza nemmeno comunicazione della decisione all’Organizzazione per le migrazioni) perché troppo vicino all’abitato. I migranti che vi si trovavano sono stati trasferiti al centro di emergenza di Lipa – 20 km più in là - , che era già al collasso (dispone infatti di mille posti, ma già prima dello sgombero di Bira ospitava 1200 persone).

Quello di Lipa non è un vero e proprio campo d’accoglienza ma un campo d’emergenza fatto di sole tende, aperto nell’aprile 2020 a seguito dell’aumento del numero di arrivi di migranti intenzionati a tentare il “game”. Il 23 dicembre scorso - nello stesso giorno in cui la gerente Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) ne aveva disposto la chiusura, ritenendolo inadeguato ad ospitare persone, in quanto privo di acqua, fognature ed elettricità - un incendio l’ha distrutto. Ma i migranti che vi erano ospitati non sono stati trasferiti altrove: sono rimasti lì, tra gli scheletri delle tende bruciate, in mezzo alla neve, esposti a temperature rigidissime e, come se non bastasse, col pericolo incombente del contagio Covid. Si sono riadattati come meglio hanno potuto, trasformando in dormitori perfino i container destinati ai bagni o utilizzando teli di plastica per coprire le impalcature di letti a castello arrugginiti e ricavarne piccole dimore.

Le porte del campo di Bira, che avrebbe potuto almeno transitoriamente accoglierli, sono rimaste serrate e vani sono stati i tentativi di negoziati internazionali per far aprire nuovi centri. Infine l’UE ha chiesto alla Bosnia di assumersi le proprie responsabilità, essendo suo compito – quale aspirante membro dell’Unione - preoccuparsi di applicare i principi minimi del trattamento dignitoso delle persone migranti.

Nulla di fatto, ad oggi. E, per il resto, pare che tutti gli Stati europei siano rimasti in disparte, sordi alle richieste di innocenti trattati come rifiuti, come se, sulla rotta balcanica, insieme alle tante vite fosse morta anche la pietà.
Anche questo dovremmo saperlo.

Pochi giorni fa, una delegazione di europarlamentari italiani, dopo essere rimasta bloccata per ore dalla polizia di frontiera croata, è riuscita a entrare in Bosnia e a giungere al campo di Lipa.
E finalmente qualcuno ha conosciuto, ha toccato con mano, ha visto e riferito che l’inferno c’è, ed è a due passi da casa nostra.
Si suoni allora l’adunata, l’Europa tutta passi all’azione: rimandare – che stavolta vuol dire differire - non è più possibile.

 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata
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