È il pomeriggio del 15 settembre 2001. Sul circuito tedesco del Lausitzring, Alex Zanardi, appena rientrato da un anno sabbatico che lo aveva tenuto lontano dalle piste, sta correndo una gara del campionato CART, che, a pochi giorni dal dramma dell’attentato alle Torri Gemelle di New York, è stata prontamente ribattezzata “American Memorial”.
A undici giri dal termine, dopo esser uscito per fare rifornimento di benzina, rientra in pista; qualche schizzo di carburante è finito sulla sua visiera e così, nel tentativo di pulirla, perde il controllo della sua Reynard Honda, che va in testa coda e rientra sulla pista, di traverso, proprio nel momento in cui sopraggiunge, ad una velocità di 320 km/h, la vettura di Alex Tagliani. L’impatto è violentissimo; l’auto di Zanardi viene letteralmente tagliata in due.
Le condizioni del pilota appaiono subito disperate; viene immediatamente trasferito in ospedale a Berlino, dove, per fermare l’emorragia in corso, subisce l’amputazione di entrambe le gambe. I medici sono pessimisti; ha già avuto sette arresti cardiaci e gli è rimasto soltanto un litro di sangue in corpo. Ma è abbastanza, sufficiente ad irrorare ancora non solo i suoi organi, ma anche la sua volontà, il suo amore per la vita, la sua voglia di tornare ad esistere.
Alex reagisce, rivolta una prospettiva che parrebbe scontata: quella di immaginare come poter fare “senza” ciò che ha perduto per ingegnarsi invece a capire cosa poter fare “con” ciò che gli è rimasto. La vita è un dono meraviglioso, e vale la pena di essere vissuta nel migliore dei modi possibili, con la consapevolezza che là dove il corpo ha dei limiti, dei pezzi mancanti, la volontà può andare oltre.
Questa è la lezione che Alex apprende rapidamente e di cui diventa testimone, per infondere fiducia a chiunque abbia subito la peggiore delle amputazioni: quella della speranza. E così, invece di piangersi addosso, di accartocciarsi e diventare ancora più piccolo di quanto sia rimasto, si solleva, si erge, senza aver bisogno di una statura fisica, dimostrando che non è quella che conta.
Del suo corpo resta solo una metà, ma l’energia, l’entusiasmo, la voglia di dare un senso ed una utilità alla vita (sia quella fatta di tempo, azioni ed emozioni che quella misurata da una circonferenza, al di sopra della quale risiede ciò che rimane del suo fisico) sono rimasti. Intatti, anzi, fortificati.
Appena tre mesi dopo quel tragico incidente il campione si presenta alla premiazione dei Caschi d’oro a Bologna, camminando sulle sue protesi, nuove di zecca. E’ il primo, tangibile, esempio di ciò che da quel momento in poi apparirà chiaro a tutti: il dramma si è trasformato in un’occasione, in una rinascita, e Alex ne darà continuamente prova. Diventa il più grande handbiker di tutti i tempi: due ori e un argento a Londra 2012, altrettanti a Rio 2016 e l’obiettivo di andare a Tokyo 2020; e, ancora, decine di medaglie conquistate tra mondiali e maratone, e la sfida – vinta anch’essa – per diventare un recordman dell’Ironman.
Ma non si tratta solo di gare per la conquista podi, medaglie, trofei: sono piuttosto anch’esse occasioni per indicare al mondo come non esista affatto un’equazione tra dolore e rabbia, tra perdita e disperazione, ma come, viceversa, muovendosi da un’apparente sconfitta possa intraprendersi un percorso di ripartenza (per usare un’espressine ricorrente, di questi tempi) attraverso cui giungere alla scoperta dell’umiltà e dell’umanità.
Non è finita finché non è finita. Questo mantra, valido per ogni genere di competizione, ha per Alex una valenza ancora più profonda: è l’ affermazione di una volontà di osare che, una volta appresa, non va tenuta solo per sé ma va data in prestito a chi sia rimasto ancora lontano dalla stessa consapevolezza.
Ed è ciò che mette in pratica in un paio d’occasioni: nel 2011, alla 26esima maratona di Venezia, Alex consente al suo amico Francesco Canali, affetto da SLA, di prendere parte a quella gara. Aggancia la sua carrozzina alla propria handbike e lo traina per tutti i 42.195 metri del percorso, a forza di braccia, affrontando ponti, calli e canali per dimostrare che non esistono sfide impossibili e rese incondizionate. Poi, giunto ad un metro dall’arrivo, si ferma, scende dall’hanbike e spinge la carrozzina di Francesco in avanti, affinché sia lui a tagliare il traguardo.
Fa lo stesso l’anno successivo, sempre alla stessa maratona. Stavolta non si tratta di un disegno programmato ma di un caso; anzi, se è chiaro ormai come funziona il pensiero di Alex, diremmo che è – anche questa volta - un’opportunità. Eric Fontanari, 17 anni, un ragazzo paraplegico, è già arrivato con le sue sole forze al venticinquesimo chilometro; ma ora il vento e la pioggia battente lo fiaccano e non ce la fa più: ha spasmi muscolari e non riesce a mantenere la traiettoria della sua handbike. Alex lo raggiunge e, di nuovo, come l’anno prima, aggancia il proprio mezzo a quello di Eric portandolo fino al traguardo, che gli lascia tagliare da solo, proprio come aveva fatto con Francesco.
Eccola l’opportunità colta da Alex: dimostrare che la solidarietà, la condivisione e la vicinanza al prossimo sono gli ingredienti che consentono di affrontare le sfide più difficili, e che non c’è bisogno di stare in piedi per arrivare in alto, per essere giganti.
Impegno, volontà, tenacia, voglia di vivere, voglia di non arrendersi.
Alex è il più significativo testimone dell’importanza di esistere, della volontà che va spinta oltre i limiti, dei traguardi possibili, nonostante tutto. Lui stesso ha coniato una formula che è ormai divenuto il suo distintivo, la Regola dei Cinque Secondi: “Quante volte mi è successo di voler mollare. Ti senti sfinito e gli avversari sembrano meno stanchi di te. E allora, per trovare qualcosa dentro, penso: ancora 5 secondi, dai, cosa vuoi che siano. Chiudo gli occhi e spingo, sentendo la fatica e il dolore. Poi li riapro e magari vedo che sono gli avversari ad aver mollato!”
Allora resisti, Alex, per un tempo un po’ più lungo stavolta. Dopodiché, riaprirai gli occhi e ti accorgerai d’aver vinto ancora. Contro la più temibile degli avversari.