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“Mi chiamo Ebrima Darboe e sono nato in Gambia il 6 giugno 2001. A 14 anni ho iniziato un viaggio, un viaggio lungo più di 5mila chilometri, come dire 50mila campi di calcio. Quando sono arrivato in Italia ero solo, ma avevo un pallone e con quello ho trovato un gruppo con cui condividere passione e talento. Ho fatto tanta strada e tanta devo farne ancora; ma ogni giorno lo spirito dell’Africa è con me. Io ce l’ho fatta.”
È così che, all’indomani della sua prima convocazione in serie A, alla fine del 2019, il giovane e talentuoso centrocampista della Roma, si raccontava in un video postato sul suo profilo Instagram. Era l’inizio di un sogno accarezzato sin da bambino, quello che l’aveva portato a fuggire dalla sua terra, affrontando una lunghissima traversata in pullman - più di tremila chilometri – fino ad un campo profughi in Libia da dove, sfuggendo ai trafficanti d’esseri umani che lo gestivano, era poi riuscito a salire su un barcone diretto a Lampedusa.
Dalla Sicilia, tramite lo SPRAR (il sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, progetto del Ministero dell’Interno che prevede la ripartizione dei migranti tra vari comuni, grazie ad una suddivisione di fondi per favorirne l’integrazione ed il percorso scolastico) era quindi arrivato a Rieti, dove, giocando per una squadra amatoriale locale, le sue grandi potenzialità erano state notate. Una talent scout, presente nella giuria di un torneo cui quella squadra aveva partecipato, lo aveva perciò preso sotto la sua ala protettiva e anche nella sua famiglia, iniziando con lui un percorso che a sedici anni e mezzo lo aveva portato nella primavera della Roma.
A diciott’anni aveva così firmato il suo primo contratto da 50mila euro, che aveva quasi interamente spedito a sua madre ed ai suoi fratelli in Gambia, fedele a quello “spirito dell’Africa” rimasto sempre con lui.
L’ha di nuovo ricordata qualche settimana fa la sua storia, Darboe, al termine di quella partita Roma-Manchester United che ha segnato il suo debutto in Europa League, completando così il suo sogno, regalandogli la sua personale vittoria, nonostante la sua squadra non sia riuscita a qualificarsi in finale.
“Io ce l’ho fatta.”
Il ragazzo che a 14 anni ha attraversato il Mediterraneo portando con sé solo un pallone e che al suo arrivo a Trigoria, nel 2019, non aveva nemmeno gli scarpini, ora ha un cartellino che vale 100mila euro.
Si, Ebrima ce l’ha fatta. Ha salvato la sua vita e quella della sua famiglia, divenendo un esempio di coraggio e di forza di volontà. Raro, tuttavia, se non unico.
Tra il suo successo e quello più modesto di altri ragazzi che, come lui, hanno affrontato lo stesso viaggio e lo stesso destino, riuscendo infine a trovare un lavoro ed una maniera dignitosa per vivere, tanti altri ce ne sono che si perdono, e non perché non ce la fanno a trovare un loro spazio, un’opportunità, una strada, ma semplicemente perché scompaiono.
La sigla – MSNA - con cui vengono contrassegnati i Minori Stranieri non Accompagnati spesso non è solo un'etichetta, ma un destino. Sono migranti giovanissimi che, a migliaia, vengono lasciati soli ad affrontare le insidie fisiche e psichiche della vita, allo sbando nel mondo a volte spaventoso e squallido degli adulti.
Scendono dalle navi che li hanno soccorsi in mare, quando riescono a trarli in salvo dalle fauci del mare che ha tentato di inghiottirli; oppure arrivano su barconi di fortuna che approdano di notte, negli anfratti bui delle coste italiane; o, ancora, giungono via terra, sfuggendo ai controlli delle frontiere. Adolescenti, ma anche bambini e bambine che, proprio in virtù della loro condizione di maggiore vulnerabilità, godono, nel nostro Paese, d’una tutela speciale stabilita, in particolare, dalla legge n. 47/2017 – nota come Legge Zampa - che attribuisce loro parità di trattamento con i minori di cittadinanza italiana o dell’Unione europea, prevedendo, peraltro, il divieto assoluto di loro respingimento alla frontiera con la sola eccezione rappresentata dai motivi di ordine pubblico e sicurezza dello Stato, e sempre che ciò non comporti “un rischio di danni gravi per il minore”.
I limiti e le condizioni al respingimento e all’espulsione comportano la necessaria operazione della identificazione del minore e dell’accertamento della sua età anagrafica, a seguito delle quale vengono attivate tutte le garanzie prescritte per consentire una adeguata assistenza medica, sociale e scolastica, passando attraverso i centri d’accoglienza ed altri istituti quali la tutela volontaria o l’affidamento familiare.
Ogni mese il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, attraverso la Direzione generale dell’immigrazione e delle politiche dell’integrazione, presenta un report sui minori stranieri non accompagnati in Italia. Nemmeno nell’ultimo anno, nonostante la pandemia, il loro esodo è scemato.
Ma il dato più sconcertante è però un altro e riguarda il numero di questi minori che, una volta effettuate le operazioni di riconoscimento e la loro assegnazione alle strutture d’assistenza, scompaiono.
Un’indagine condotta dal “The Guardian” e dall’organizzazione “Lost in Europe”, un progetto internazionale di giornalismo investigativo che riunisce professionisti di sette paesi, ha raccolto informazioni da 27 Stati, membri e non membri dell'Unione Europea, e le ha poi sottoposte - a marzo scorso - ad un gruppo di esperti, i quali hanno concluso che da gennaio 2018 a dicembre 2020 le autorità di quei paesi hanno perso le tracce di almeno 18.292 minori stranieri non accompagnati (circa 6mila solo in Italia), equivalenti a quasi 17 al giorno. Considerato però che, secondo la stessa indagine, le informazioni fornite spesso sono state incoerenti o incomplete, il numero reale potrebbe essere addirittura molto più alto.
Viene allora da domandarsi dove finiscano questi ragazzi e come sia possibile che sfuggano ad un sistema di protezione che dovrebbe garantirli.
Molti spariscono perché hanno contratto dei debiti di viaggio e, non essendo in grado di ripagarli, finiscono per essere ricattati e diventare vittime di tratta, di sfruttamento sessuale o lavorativo. Se non hanno una famiglia alle spalle pronta a ripagare il debito o a fare da garante, possono persino essere uccisi e i loro organi possono essere rivenduti per un prezzo che arriva fino a 15.000 dollari.
La possibilità più ricorrente è tuttavia che finiscano nella rete della criminalità organizzata (e vengano perciò utilizzati per la prostituzione, le estorsioni o lo spaccio), che, paradossalmente, finisce per funzionare per loro come una struttura d’accoglienza più efficiente rispetto a quella prevista da norme specifiche.
Già, perché il punto è proprio questo: sebbene quasi tutti i paesi europei dispongano di procedure dettagliate per l’accoglienza e, dunque, per contrastare il fenomeno della scomparsa dei minori soli, di fatto esse non funzionano. Mancano strutture, mancano persone, manca un’adeguata formazione.
La conseguenza è allora che proprio quelli, tra i migranti, che in quanto più deboli e soli dovrebbero poter contare su un’adeguata rete di supporto, vedono invece disattesi i loro diritti alla cura, all’assistenza ed alla protezione, tanto ben declamati sia dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che dalla Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza dell’Onu.
“Io ce l’ho fatta”: non funziona come una formula magica che, se pronunciata, può cambiare il destino di chi non ha neppure la carezza rassicurante d’un padre o d’una madre. È una reale e faticosa conquista, purtroppo ancora di pochi.
È piuttosto la sua negazione che andrebbe allora scritta accanto al nome d’ognuno di quei 18mila scomparsi, vittime - come spesso accade anche in altri contesti - d’un sistema capace di indicare le regole solo sulla carta senza poi essere davvero in grado e sufficientemente responsabile da tradurle compiutamente in azione.