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Quel che resta di un anno

Autore: Ester Annetta
Adeguandomi alla prassi che affida a ogni inizio di nuovo anno il rendiconto di quello appena trascorso, sfoglio anch’io virtualmente il bilancio del 2022, provando a focalizzare gli eventi più salienti che l’hanno connotato.

Come sempre accade, mi vengono in soccorso le parole, quelle chiavi capaci di aprire il varco alle riflessioni e tracciare percorsi, riempendoli di contenuti.

Mi capita così di imbattermi nelle statistiche elaborate da Google Trends che, proprio partendo dalle parole, classifica quelle che sono state più ricercate dagli utenti italiani nel corso dell’anno, evidenziando gli argomenti che, appunto, hanno fatto “tendenza”.

Le prime cinque risultano essere state: Ucraina, Regina Elisabetta, Russia Ucraina, Australian Open, Elezioni 2022.Tra i personaggi, ai primi posti sono risultati Vladimir Putin; Drusilla e Blanco e, tra gli “addii”, quelli alla Regina Elisabetta, a Piero Angela, a Mino Raiola, a David Sassoli e a Monica Vitti.

Mi sorprendo così nel notare che, stando alle evidenze delle parole “googolate”, ciò che verosimilmente ha condizionato le ricerche degli italiani pare essere stato prevalentemente la curiosità o il gossip più che l’informazione genuina, come denota l’assenza di grandi temi come “Iran”, “crisi economica”, “clima”, “migranti”. Sicché viene da domandarmi se il motivo della mancanza di temi di maggior sostanza sia dovuta a indifferenza o ad una ricorrenza talmente marcata da renderli scontati e superflui.

Ma, ad ogni modo, nessuna delle due ragioni sarebbe rassicurante o accettabile.

Parto dunque da qui, dalle evidenziate mancanze, per tracciare un breve riassunto dell’eredità che il 2022 ci ha lasciato, consapevole che non si tratta di frange, di temi compiuti col terminare dell’anno, ma necessariamente destinati invece a prolungarsi nel nuovo e ben oltre il suo inizio. Ed azzardo perciò il recupero di altre parole che avrebbero diritto di abitare quelle classifiche, in posizioni ben più elevate ed autorevoli di quelle che sono invece spettate a temi da copertine patinate.

Alla parola “Ucraina” associo dunque “guerra”, “armi”, “rifugiati”. Mi riporto alla “paura” da noi tutti vissuta in quelle prime settimane successive all’esplosione del conflitto, quando sembrava palpabile e concreto il rischio dell’innescarsi di un contagio mondiale che trascinasse chiunque – non solo noi Nazioni europee vicine di casa dell’Ucraina – nella devastazione e nella rovina della guerra.

Una paura che è progressivamente rientrata quando è apparso chiaro che la guerra vera, quella fatta di sangue e bombe, sarebbe rimasta circoscritta ai territori in cui si stava combattendo, mentre il resto del mondo, continuando a fingere di non essere ugualmente coinvolto nel conflitto, l’avrebbe guardato a distanza. Nella sua ipocrita visione, infatti, fornire armi ai belligeranti non avrebbe significato scendere in campo con loro, nelle loro trincee, tra i loro morti.

L’Italia, l’Europa, il mondo non combattente hanno scelto il ruolo più comodo di spettatori, seduti nella platea da cui hanno preferito assistere alla tragicommedia agìta in primo piano da eccitati e folli capi di potenze, intenti a rivendicare il ruolo da protagonista; da produttori di armi più interessati al protrarsi della guerra che alla ricerca di una tregua; da un giornalismo che troppo spesso ha trasformato in spettacolo il dramma reale di chi immola la propria vita ai valori e alla democrazia.

Ciò che invece ha continuato ad accadere sullo sfondo o dietro le quinte hanno scelto di non vederlo o, al massimo, di dedicargli uno sguardo di circostanza, una pietà fatta di retorica e parole, crollata inesorabilmente di fronte alla necessità concreta di aiuto - che poteva voler dire semplicemente “basta armi!” - di milioni di persone che, laddove abbiano avuta risparmiata la vita, sono rimaste al buio e al freddo, senza averi, senza casa e orfani di persone care. Di buono c’è però stato che al loro esodo è stata risparmiata l’umiliazione di non trovare accoglienza, che invece è rimasta prerogativa di migranti e rifugiati provenienti da altre guerre e altre mancanze che – forse perché più lontane e meno conosciute - evidentemente impattano meno sulle coscienze.

Ancora lontano dai vertici della classifica è rimasto il femminicidio di massa che si sta compiendo in “Iran”, la violenza bruta e idiota dei talebani: temi che non solo disertano il campo di ricerca delle parole ma, evidentemente, anche quello delle azioni e dei fatti concreti, giacché il mondo intero sembra rimanere inerte di fronte alla necessità di un intervento che contenga questa infame strage. Non meno di quanto non faccia di fronte alla “pulizia etnica” che prosegue in Palestina e che resta persino lontana e ignorata dall’attenzione mediatica.

E poi c’è ancora lo “sfruttamento”, quello che resta silente ed ignorato in diverse aree del pianeta e che solo di tanto in tanto balza agli onori della cronaca, in concomitanza di altri eventi che fanno da traino mediatico: è quanto è accaduto in occasione dei mondiali del Qatar, che hanno svelato il retroscena di un qualche migliaio di “schiavi” morti sotto al sole soffocante mentre costruivano cattedrali nel deserto.

E, ancora, la “crisi climatica” vaticinata da profeti ai quali non si presta ascolto, giacché prioritaria è la corsa alla crescita economica - per tramite di chi contribuisce con le proprie produzioni (armi in primis) all’aumento delle emissioni nocive – in contrappunto alla crisi nello stesso settore, senza tenere in conto che i destini economici dell’umanità e quelli della natura sono tra loro inscindibilmente connessi. Ma finché c’è guadagno e accumulo di capitali e potere, il resto può andare in malora: “quando il mondo perirà, noi non ci saremo più da un pezzo” pare essere la filosofia del momento.

Mi fermo qui. Mi sembra sufficiente come scampolo di fine anno da traghettare nel nuovo. Abbastanza, quanto meno, per interrogarci seriamente su cosa concretamente può cambiare col nuovo anno. Al di là dei buoni propositi.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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