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Questione di rispetto

Autore: Ester Annetta
Dicono che gli occhi - a differenza del resto del corpo - non crescono più dopo la nascita; il loro aspetto cambia solo perché, in realtà, è il viso intorno a crescere e a cambiare e ciò spiegherebbe anche perché i bambini piccoli li hanno immensi, rotondi e spalancati.

È il primo pensiero che mi viene in mente quando, intenta a decifrare il burocratese di un documento aperto sul display del mio pc, il primo piano di un bimbo cattura la mia attenzione. Spunta improvviso nell’angolo dello schermo, tendendomi quasi un agguato con i suoi occhioni vispi e luminosi. Il sorriso che mi ispirerebbe quella foto non fa però a tempo ad accendersi, che il titolo lo inghiotte: “Ucciso di botte a 2 anni: ora anche l’ombra degli abusi sessuali”.

Clicco sulla notifica prima che scompaia: la foto conquista l’intero schermo, rimandandomi un nome e ad una notizia tra le tante che il tempo tende a cancellare, finché un fatto nuovo – una svolta investigativa, un esito giudiziario o altro – non le riporti alla memoria.

Ed è proprio quell’”altro” che stavolta attiva la “funzione recupero”: un dettaglio sconcertante che tale non è soltanto per il suo contenuto ma anche per la maniera cruda, volgare ed empia con cui viene data in pasto agli avvoltoi mediatici.

Il viso bellissimo come solo può essere quello di un bimbo di neanche due anni è quello di Evan Lo Piccolo, che nell’agosto di due anni fa moriva all’ospedale di Modica dov’era stato portato in fin di vita. Come poco dopo avrebbe accertato l’esame autoptico, ad ucciderlo era stato un arresto cardiocircolatorio dovuto a una forma di broncopolmonite collegata alle ripetute lesioni e ai maltrattamenti subiti dalla mamma e dal compagno: aveva costole rotte, una frattura allo sterno ed altre lesioni pregresse.

Non era la prima volta che Evan finiva in ospedale; c’era già stato almeno tre volte nei mesi precedenti a quell’ultimo definitivo passaggio; il suo corpicino martoriato da lividi e tumefazioni denunciava quasi quotidianamente la parte esteriore e più superficiale di una sistematica e reiterata violenza, che spesso era stata ancora più accanita.

L’interrogativo di come si possa arrivare a tanto non trova risposte logiche, nemmeno a volerne imputare la ragione a disturbi mentali che, difatti, le perizie disposte sugli imputati hanno escluso.

Qual è allora l’istinto che si scatena nell’uomo quando scavalca l’argine della razionalità e sconfina nella belluinità? E quale demone impedisce, invece, ad una madre di attivare il suo istinto di protezione nei confronti d’un figlio, quando persino una cagna è capace di immolarsi per salvare la vita del suo cucciolo?

Il dramma di Evan era già colmo così, sottolineato dai suoi lividi, incrostato dalle sue ferite, solcato dalle sue fratture; e poteva bastare.
Invece no. Perché lo scempio del suo corpo non era sufficiente. Serviva anche la profanazione della sua innocenza, quanto di più sacro e puro si sarebbe dovuto preservare.

Così, la verità che è emersa nei giorni scorsi ha reso anche sordida una vicenda che finora era stata solo tragica, tingendola dei toni cupi della perversione.

Nel corso dell’ultima udienza del processo per la morte di Evan è stata fatta ascoltare un’intercettazione che inequivocabilmente dimostrerebbe che Salvatore Blanco - il compagno della mamma - non si sarebbe limitato ai maltrattamenti, ma avrebbe anche abusato sessualmente del piccolo.

Il dovere di giustizia richiede che si scandagli il fondo dell’abominio, che si rimesti nella feccia delle azioni inumane compiute dagli umani, che si scortichi la verità fino ad arrivare a quella più nuda e ripugnante.

Ma c’è un limite di pudore e soprattutto di rispetto – specie se le vittime sono bambini– che imporrebbe che i dettagli più scabrosi restassero confinati nell’aula di tribunale e non affidati alla fame morbosa di una platea cui interessano non per biasimo o pietà ma spesso per altrettanta perversione.

Perché trascrivere fedelmente le parole (estratte dalle intercettazioni) che, nel pieno del suo svilimento morale, un uomo rivolge ad un bambino - appena in grado di distinguere una carezza da un ceffone - nell’atto in cui viola la sua innocenza?

Perché riportare frammenti dell’interrogatorio in cui anche il magistrato, nell’intento di scardinare le resistenze dell’imputato, lo provoca con richieste dirette ed esplicite d’altrettanto impatto?

Ho provato fastidio e risentimento nel trovare tanta inopportuna puntualità.

Non serve a rendere più scandaloso ciò che già di per sé è osceno ed immorale; serve solo a spettacolarizzare il dramma, a ricondurre nelle caselle dei numeri del gradimento la notizia, laddove tiene luogo del doveroso silenzio che invece spetterebbe come ultima, estrema forma di protezione ancora possibile.

Altrimenti è come uccidere la vittima una seconda volta.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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