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Lisa Montgomery aveva 52 anni.
Ma questo dato anagrafico corrisponde solo alla conta numerica del tempo trascorso tra la sua nascita e la sua morte. Affermare che abbia davvero vissuto, è un’altra faccenda.
A raccontare la sua storia sono stati altri; lei è invece rimasta chiusa nel suo silenzio, nel suo dolore, nella sua rabbia e, infine, nella sua cella, in attesa che la morte - anche quella decisa da altri, com’era stato, in fondo, per tutte le pieghe prese dalla sua esistenza – giungesse a porre fine a tutto.
C’era stata una volta una bambina dal viso allegro e sorridente, che, come tutte, avrebbe potuto spalancare gli occhi di meraviglia di fronte alla bellezza d’ogni cosa nuova, sorridere di contentezza, giocare spensierata, crescere serena in una famiglia che l’amava, fortificandosi e diventando poi una donna forte ed equilibrata. Invece, a soli tre anni, quella bambina aveva appreso come prima lezione l’orrore e la paura, racchiudendo nella sua memoria non le risate argentine condivise con la sua sorellina maggiore, ma le sue urla terrorizzate, mentre, sdraiata accanto a lei nello stesso letto, subiva gli abusi del suo baby sitter.
Qualche tempo dopo, quegli stessi abusi avrebbe cominciato a subirli lei stessa, ad opera d’un patrigno cui neppure sua madre si opponeva, finendo anzi per utilizzarla come moneta per pagare i servizi dell’elettricista o dell’idraulico di turno.
Quella bambina cresciuta troppo in fretta, suo malgrado, non aveva avuto il tempo e la gioia di poter giocare perché era diventata lei stessa un giocattolo, una bambola di pezza prestata alla depravazione del suo patrigno ed all’abominio dei suoi compari, che dopo essersi divertiti con lei, le urinavano addosso come cani, ma non per marcarne il territorio, piuttosto per rimarcare tutto il loro disprezzo.
E l’unica volta che, a 11 anni, aveva tentato di ribellarsi, quell’uomo orribile le aveva sbattuto così violentemente la testa a terra da procurarle una lesione cerebrale. Da allora si era arresa e non ci aveva più provato ad opporsi al vilipendio del suo corpo ed alla devastazione della sua mente.
Era dunque cresciuta così Lisa, senza le favole, senza i sogni, senza neppure la speranza d’un futuro diverso. L’umiliazione era stato il suo nutrimento; un dolore sempre più fitto e stratificato era stato il sentiero lungo cui si era infine addentrata in un mondo parallelo, un rifugio, dove un’altra sé pensava ed agiva per sfuggire alla morsa di un male che ormai non era più solo quello fisico inflittole dai suoi aguzzini ma uno più intimo, radicato nell’anima, che mai più le avrebbe permesso di dimenticare.
Si chiama disturbo bipolare questa estraneazione da quel se stesso con cui non si riesce a convivere e che crea la rappresentazione d’un altrove che solo in apparenza si pone come alternativa migliore ma, nella realtà, il più delle volte finisce paradossalmente per individuare in altro male il solo possibile beneficio.
Quella donna che non aveva mai conosciuto l’amore e la compassione e che non sapeva neppure in quali gesti ed in quali espressioni si traducessero, nella sua mente devastata li aveva reinterpretati a modo suo, giungendo a compiere un delitto efferato che le procurasse qualcosa di suo: una creatura attraverso cui sperimentarli, un oggetto d’amore e da amare.
Aveva scelto così una giovane donna che stava per diventare madre e le aveva squarciato il ventre per prendere con sé la bimba che custodiva, come se fosse una sua legittima spettanza, qualcosa che le era dovuto, giacché lei non aveva avuto nemmeno la fortuna (ma stavolta, forse, non era stato un male) di poter avere figli.
Da allora Lisa ha vissuto in una cella, nel braccio della morte, in una prigione dell’Indiana. Negli USA l’omicidio aggravato è un reato federale per cui è prevista la pena di morte, ma quello Stato l’aveva comunque sospesa da più d’un decennio e, dunque, Lisa non era stata giustiziata.
Poi, però, è arrivato Trump, che, col suo delirio d’onnipotenza, tra i suoi tanti miseri primati ha voluto aggiudicarsene anche un altro: ha infatti revocato la moratoria decisa dagli Stati in cui è ancora prevista l’esecuzione capitale riuscendo così, solo nell’ultimo anno della sua presidenza, a far eseguire a livello federale più condanne a morte (11, con quella di Elisa) di quante ne abbiano eseguito in totale, a livello statale, i singoli Stati (7).
A nulla sono valsi gli sforzi dei difensori di Lisa che, ricostruendo davanti ai magistrati la sua storia e documentando i suoi disturbi, si sono appellati al principio costituzionale che vieta l'esecuzione di una persona che non è in grado di intendere e di volere. “Lisa non è la peggiore delle peggiori, è la più spezzata di tutte le persone spezzate” . La verità, dura ma evidente, è che le violenze subite avevano ridotto in macerie il suo corpo e la sua anima, rendendola incapace di distinguere il bene dal male, tanto più che, lei, il bene non l’aveva mai davvero conosciuto.
Ma non è valso a nulla, e, dopo, una prima sospensione (concessa per consentire la perizia psichiatrica) che aveva fatto sperare in uno slittamento dell’esecuzione almeno fino ad una data successiva all’insediamento di Biden (che è invece contrario alla pena di morte ed ha già dichiarato che si adopererà perché sia eliminata), con una garbata lettera l’amministrazione penitenziaria ha comunicato a Lisa che il 13 gennaio sarebbe stata giustiziata con un’iniezione letale.
Chissà cosa le sarà passato per la mente quando, prima che le venisse infilato l’ago che avrebbe liberato nelle sue vene il siero della morte, le è stato chiesto se avesse qualcosa da dire, se in quel momento la pellicola della sua orribile vita si sia srotolata rapidamente davanti ai suoi occhi, se avrà visto in quella siringa l’ultima, vera, alternativa al suo infinito dolore.
Sotto un profilo di umanità (intesa come compassione) siamo forse tutti un po’ portati a credere che, a volte, ci siano condizioni in cui la morte può davvero rappresentare una liberazione. Ciò che tuttavia non è umano (stavolta intendendosi che non spetta all’uomo) è il giudizio che decreta che essa possa equivalere ad una punizione.
Diceva Beccaria: «Parmi un assurdo che le leggi, che sono l'espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l'omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall'assassinio, ordinino un pubblico assassinio». La morte non può essere una pena in uno Stato civile, né può accettarsi che esso, come “somma di cittadini” abbia su un bene – la vita, appunto – una disponibilità che è sottratta persino al singolo individuo, tanto su se stesso che sugli altri.
E ciò non vuol dire non considerare o sottovalutare le vittime, degne senz’altro di giustizia e compassione. Vuol dire, invece, che va adottata una giusta proporzione nel perseguire il colpevole, a nulla servendo l’estremo di infliggergli - occhio per occhio - una condanna equivalente al reato commesso: essa non porterebbe né alla sua “redenzione” né, tanto meno, alla “resurrezione” della sua vittima.
Una eguale compassione, anzi, sebbene diversamente motivata, andrebbe riservata a chi in vita sua non ne ha mai avuta, a chi ha conosciuto solo odio e violenza, ed ha perciò agito credendo che fossero quelli gli unici strumenti attraverso i quali fosse possibile giungere a qualcosa di simile alla felicità.
Ora riposa finalmente in pace, Lisa, libera dai tuoi fantasmi e dal dolore.
E che la tua memoria resti viva per ricordare all’uomo la sua natura animale, ove s’illuda che potenza equivalga a violenza e brutalità (perché il vero crimine è l’abuso impunito degli innocenti!) e non perché ti sia toccato il primato d’essere la prima donna giustiziata in America dopo 70 anni.