11 giugno 2019

La rilevazione giuridica delle unioni paraconiugali

Autore: Paola Sabatino
Il Coniglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili ha pubblicato il 4 giugno 2019 il documento di ricerca rubricato “la rilevanza giuridica delle unioni paraconiugali nella partecipazione all’impresa familiare”.

Nella sostanza, il documento analizza la regolamentazione delle collaborazioni familiari introdotta dalla legge Cirinnà entrata in vigore nel maggio 2016, soffermandosi in particolare sulla disciplina dettata dall’articolo 230-ter del codice civile per le prestazioni di lavoro rese dai conviventi more uxorio. Vengono evidenziati, inoltre, i presupposti applicativi della nuova fattispecie e le incertezze interpretative relative alla corretta qualificazione del rapporto di collaborazione, proponendo una soluzione esegetica per l’inquadramento previdenziale e fiscale dell’attività di lavoro del convivente nell’impresa familiare.

La valorizzazione giuridica delle convivenze more uxorio
La legge Cirinnà, come è noto, ha introdotto nel nostro ordinamento, la regolamentazione che equipara le unioni tra persone dello stesso sesso e convivenze di fatto, alla “famiglia tradizionale”.

L’equiparazione effettuata dalla legge Cirinnà, consente, quindi, di estendere alle unioni civili, figure giuridiche di particolare rilievo in ambito patrimoniale, al fine di garantire una forma di tutela minima al lavoro prestato all’interno delle imprese aventi carattere familiare.
Per l’impresa familiare, l’articolo 230-bis del codice civile dispone che il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro all’interno dell’impresa familiare, ha diritto al mantenimento, di partecipare agli utili, ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato. Il predetto articolo, considera come parenti solamente il coniuge, parenti entro il terzo grado (sia in linea diretta che in linea collaterale), parenti e affini di secondo grado.

L’articolo 1 comma 46, della summenzionata legge, infatti, introduce nel codice civile l’articolo 230-ter, postillato “diritti del convivente”, il quale garantisce analoghi diritti a favore del convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente, salvo che tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato. Ne consegue che al convivente spetta la partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi aziendali. Dalla lettura dei citati articoli si può notare che, in entrambi i casi, si configura il diritto alla partecipazione agli utili ed il diritto agli incrementi patrimoniali. Per le convivenze di fatto, tuttavia, sussiste il limite che fra i conviventi non debba esistere già un altro tipo di contratto all’interno dell’impresa stessa.

Al convivente di fatto, quindi, saranno riconosciuti, all’interno dell’impresa familiare, gli stessi diritti riconosciuti al coniuge. Potrà, infatti, partecipare agli utili, alla gestione dell’impresa, e prendere parte alle decisioni amministrative. Il diritto di partecipazione non potrà, però, essere trasferito ad un’altra persona, a meno che non sia un parente. Il convivente di fatto, inoltre, può essere nominato tutore, curatore o amministratore di sostegno, qualora l'altra parte sia dichiarata interdetta o inabilitata oppure in presenza dei presupposti indicati all'articolo 404, del codice civile.

Nel documento pubblicato dal CNDCEC viene affermato che la legge Cirinnà non estende tout court al convivente lo stesso statuto protettivo previsto dall’articolo 230-bis ma, in linea con la differenziazione giuridica dei modelli familiari, si limita all’attribuzione di alcuni diritti patrimoniali.

I profili lavoristici della disciplina si mostrano lacunosi, avendo il legislatore omesso ogni espresso riferimento all’inquadramento previdenziale, assicurativo e fiscale del rapporto.

Dal punto di vista dei profili applicativi di tipo soggettivo, il Consiglio sostiene che la convivenza, in quanto “formazione sociale non esternata dai partners a mezzo di un vincolo civile formale”, avrebbe natura fattuale, motivo per il quale la dichiarazione anagrafica rappresenterebbe uno strumento privilegiato di prova e non anche un elemento costitutivo della fattispecie. D’altronde, se il rapporto di convivenza more uxorio si configura come un “fatto” giuridicamente rilevante, gli effetti giuridici prescritti dal richiamato articolo 230-ter, scaturiscono al di là di ogni adempimento formale.

Presupposti di tipo oggettivo
L’articolo 230-ter, del codice civile afferma un presupposto applicativo di tipo negativo, secondo il quale il diritto di partecipazione al collaboratore familiare “non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato”. Sul punto, viene notato che il riferimento al ‘rapporto’ nella formula di legge stia ad indicare che non è sufficiente ad escludere l’operatività della norma codicistica la diversa formalizzazione del rapporto qualora questo non assuma nella realtà fattuale i connotati tipici del rapporto contrattualizzato. Così, in mancanza di ogni altra specificazione in ordine alla tipologia e alla modalità di esecuzione del rapporto di lavoro familiare, a parere del CNDCEC è possibile trarre la conclusione che la collaborazione nell’impresa del convivente disciplinata dall’articolo 230-ter, indifferentemente se di tipo manuale o intellettuale, abbia i connotati dell’autonomia.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata
Iscriviti alla newsletter
Fiscal Focus Today

Rimani aggiornato!

Iscriviti gratuitamente alla nostra newsletter, e ricevi quotidianamente le notizie che la redazione ha preparato per te.

Per favore, inserisci un indirizzo email valido
Per proseguire è necessario accettare la privacy policy