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Il prestanome non risponde del reato di bancarotta documentale ex art. 216, primo comma, n. 2, prima parte, L.F., se risulta che tutta la documentazione della società è stata consegnata dal commercialista all’effettivo gestore dell’impresa poi fallita.
È quanto emerge dalla sentenza n. 10647/2019 della Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione.
Bancarotta fraudolenta
Ai sensi dell’art. 216 L.F. (R.D. n. 267/42 e succ. modif.), è punito con la reclusione da tre a dieci anni, se è dichiarato fallito, l'imprenditore che:
Condanna annullata con rinvio
Con la sentenza impugnata per cassazione, la Corte di appello di Messina ha confermato la condanna dell’imputato, dichiarato fallito, in ordine al reato di cui all'art. 216 comma 1, n. 2 legge fallimentare, per avere sottratto i libri e le altre scritture contabili della propria impresa individuale.
Il difensore ha denunciato la violazione di legge sul rilievo che la stessa Corte di merito aveva accertato che l’imputato era un mero prestanome e che tutta la documentazione della società era stata consegnata dal commercialista all’effettivo gestore dell'impresa, sicché la condotta penalmente rilevante (sottrazione dei libri e delle altre scritture contabili) non poteva essere addebitata all'imputato.
La Suprema Corte ha condiviso l’assunto difensivo.
Gli Ermellini hanno evidenziato che, «in tema di reati fallimentari, la bancarotta fraudolenta documentale di cui all'art. 216, comma 1, n. 2 prevede due fattispecie alternative, quella di sottrazione o distruzione dei libri e delle altre scritture contabili, che richiede il dolo specifico, e quella di tenuta della contabilità in modo da rendere impossibile la ricostruzione del movimento degli affari e del patrimonio della fallita che, diversamente dalla prima ipotesi, presuppone un accertamento condotto su libri contabili effettivamente rinvenuti ed esaminati dai predetti organi e richiede il dolo generico» (Cass. pen. Sez. 5, n. 43966 del 28/06/2017; Cass. pen. Sez. 5 n. 18634 dell’1/02/2017).
Il caso di specie, concernendo la sottrazione dei libri e delle scritture contabili, ricade nella prima ipotesi e dunque richiede il dolo specifico.
Di conseguenza, gli Ermellini hanno accolto il ricorso dell’imputato, poiché per la configurabilità del reato deve essere accertato che scopo dell'omissione è «quello di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori», mentre su tale punto la sentenza impugnata nulla dice. E si tratta di un’evidente carenza motivazionale su uno degli elementi costitutivi del reato che ha imposto ai Massimi giudici di rinviare la causa per nuovo esame alla Corte di appello.