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All’imprenditore ultrasettantenne, che a causa della crisi economica non ha potuto versare le ritenute operate sulle retribuzioni dei dipendenti, incorrendo così nel reato di cui all’articolo 10-bis del D.lgs. n. 74/00, deve essere comminata una pena coincidente con il minimo edittale, se al fattore dell’età avanzata si aggiungono l’incensuratezza e il merito di aver creato e mantenuto numerosi posti di lavoro.
È quanto emerge dalla sentenza n. 3658/18 della Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione.
Nel caso di specie, l’imputato, quale legale rappresentante di società, non ha corrisposto ritenute risultanti dalle certificazioni rilasciate ai sostituiti per l’anno 2009, per un ammontare pari a euro 404.000, e ha giustificato tale condotta con un’improvvisa crisi di liquidità.
La difesa ha evidenziato che l’imputato si era da subito attivato con iniziative quali la presentazione di un’istanza di concordato preventivo per il pagamento integrale del debito erariale, la cessione di ramo di azienda, la vendita di beni personali e le prestazioni di garanzie. La difesa ha anche fatto presente – sempre al fine di dimostrare l’esistenza della scriminante ex art. 45 cod. pen. (“Non è punibile chi ha commesso il fatto per caso fortuito o forza maggiore”) – che nell’ambito della procedura fallimentare erano stati riconosciuti numerosi crediti a favore della società, per una somma di 4 milioni di euro, che imprevedibilmente non era stato possibile incassare.
Queste argomentazioni difensive non hanno indotto né il Tribunale né la Corte d’appello a pronunciare sentenza di assoluzione. I giudici di merito hanno comunque applicato la pena in misura prossima al minimo.
Ebbene, nel giudizio di legittimità, in relazione alla quantificazione della pena, la difesa dell’imprenditore ha dedotto con successo la violazione dell’articolo 133 cod. proc. pen. e il vizio di motivazione sul punto.
La difesa, facendo leva sull’età avanzata dell’imputato (nato nel 1945), sull’assenza di precedenti penali, nonché sul fatto che l’imputato ha creato e mantenuto numerosi posti di lavoro, ha sostenuto l’applicabilità di una pena in misura ancora più bassa rispetto a quanto stabilito dalla sentenza impugnata.
Per la Suprema Corte si tratta di un’osservazione corretta, poiché “A fronte del motivo di appello con cui l'imputato instava per la riduzione della pena in misura coincidente con il minimo edittale invocando lo stato di incensuratezza, l'età superiore ai settanta anni e l'intervenuta creazione, quale imprenditore, di numerosi posti di lavoro, la sentenza, limitandosi ad affermare essere la pena già stata irrogata in misura prossima ai minimi edittali (fatto, questo, del tutto evidente tanto da essere appunto logico presupposto della richiesta difensiva di ulteriore diminuzione della pena) ed essere già state concesse le circostanze attenuanti generiche nonché riconosciuti i benefici di legge, ha omesso ogni risposta sul punto incorrendo così nel difetto di motivazione denunciato.”
Pertanto, sotto il profilo del trattamento sanzionatorio, la sentenza impugnata è stata annullata, con rinvio alla Corte d’appello di Milano per nuovo esame.
Non ha avuto, invece, successo il motivo di ricorso relativo alla violazione dell’art. 10-bis D.lgs. n. 74/00.
La sentenza in esame ricorda l’orientamento secondo cui per l'integrazione del reato in oggetto è sufficiente che il sostituto d'imposta venga meno all’obbligo di accantonare le somme dovute “organizzando le risorse disponibili in modo da potere adempiere all'obbligazione tributaria; in altri termini, secondo un indirizzo da tempo seguito, lo stato d'insolvenza non libera il sostituto d'imposta, dovendo questi adempiere al proprio obbligo di corrispondere le ritenute così come adempie a quello di pagare le retribuzioni di cui le ritenute stesse sono parte. Ed invero, anche il sopravvenuto fallimento dell'agente non è sufficiente a scriminare il precedente omesso versamento delle ritenute, essendo obbligo del sostituto d'imposta quello di ripartire le risorse esistenti all'atto della corresponsione delle retribuzioni in modo da poter adempiere al proprio obbligo tributario, anche se ciò comporta l'impossibilità di pagare i compensi nel loro intero ammontare” (tra le altre, Cas. Pen. Sez. 3, n. 19574/2014; Sez. 3, n. 11694/1999; Sez. 3, n. 11459/1995).
Con riferimento, poi, ai crediti verso terzi che non si è riuscito a esigere, la sentenza n. 3658/2018 sostiene che il mancato pagamento di debiti rientra nel normale rischio d’impresa (Cass. Pen. Sez. 3, n. 20266/2014).