20 settembre 2023

Collaboratore familiare: no alla deduzione dei contributi previdenziali rimborsati al titolare dell’impresa agricola

Autore: Cinzia De Stefanis
Domanda -Sono un collaboratore familiare di un’impresa che esercita l’attività agricola. Il versamento dei contributi Inps viene effettuato dal titolare dell'impresa, anche per la quota di mia spettanza. E’ possibile ottenere il riconoscimento della deducibilità Irpef di tali contributi, sia da parte dell'imprenditore agricolo che del familiare collaboratore?

Risposta - Il collaboratore familiare non può dedurre i contributi previdenziali rimborsati al titolare dell’impresa agricola, non potendo trovare applicazione l’articolo 10, comma 1, lett. e), del Tuir.

L'assenza di una disciplina esplicita del diritto di “rivalsa” nella disciplina giuridica dei contributi previdenziali versati dai titolari di imprese familiari in agricoltura in favore dei collaboratori/coadiutori, non consente il riconoscimento della deducibilità Irpef di tali contributi, sia da parte dell'imprenditore agricolo che del familiare collaboratore.

L’articolo 10, comma 1, lett. e), del TUIR stabilisce che sono deducibili dal reddito complessivo, se non sono deducibili nella determinazione dei singoli redditi che concorrono a formarlo, tra l’altro, “i contributi previdenziali ed assistenziali versati in ottemperanza a disposizioni di legge, nonché quelli versati facoltativamente alla gestione della forma pensionistica obbligatoria di appartenenza, ivi compresi quelli per la ricongiunzione di periodi assicurativi.”; il successivo comma 2 prevede, inoltre, che le spese di cui alla riportata lettera e) del comma 1 sono deducibili anche se sostenute relativamente alle persone indicate nel medesimo art. 433 del codice civile se fiscalmente a carico.

La riforma del diritto di famiglia del 1975 ha introdotto l’art. 230-bis c.c. che, al primo comma, sancisce:<< Salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo le condizioni patrimoniali della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato. Le decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell’impresa, sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all’impresa stessa. I familiari partecipanti all’impresa che non hanno la piena capacità di agire sono rappresentati nel voto da chi esercita la potestà su di essi>>.

L’art. 230 bis c.c. disciplina il lavoro prestato dal familiare all’interno di un’impresa facente capo ad un parente o affine. Pertanto, presupposto per l’applicazione della norma è l’esistenza di un’impresa in senso tecnico così come descritta dall’art. 2082 c.c. Il riferimento all’impresa, tuttavia, non intende individuare il luogo della prestazione di lavoro, bensì l’effettivo contenuto della prestazione; la legge ha infatti inteso disciplinare ogni prestazione di fare, connessa con un’attività organizzata di produzione o scambio di beni ovvero di servizi. Per lavoro prestato nell’impresa familiare deve intendersi qualsiasi tipo di attività (intellettuale, manuale, direttiva o esecutiva) che sia astrattamente idonea a costituire oggetto di un rapporto di lavoro subordinato o autonomo.

Altro fondamentale presupposto per l’operatività dell’art. 230-bis c.c. è che uno dei familiari, tra quelli appartenenti alle categorie espressamente indicate, svolga il proprio lavoro, nella famiglia o nell’impresa familiare, in modo continuativo.
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